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IL CINEAMATORE il sito del Cinema Zuta
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IN UCRAINA SULLE TRACCE DI SCHULZ
Un viaggio breve ma avventuroso
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Il
treno di notte
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Siamo appena scesi
dall’intercity EIC 1321 “Krakus” che
dalla stazione centrale di Varsavia ci ha portati con 40 minuti di
ritardo a
Cracovia. Sia a Varsavia che qui tutti i treni viaggiano con una media
di 40
minuti di ritardo, forse perché siamo a ridosso di ferragosto. Fa un
caldo
indescrivibile in questa stazione, c’è gente dappertutto.
Il treno di notte
IC 6300 “Józef Chełmoński” per Lwów (Leopoli) risulta avere
180 minuti di ritardo. Non c’è nessuno al banco informazioni e
l’altoparlante,
che si capisce appena, continua a ripetere di non allontanarsi dai
tabelloni,
perché gli orari potrebbero cambiare. Siamo in dubbio se andare a farci
un giro
imprevisto in città oppure aspettare.
Per fortuna
aspettiamo, e il ritardo si riduce prima a 120
minuti, poi a 60 fino a diventare di circa 40. Saliamo al binario. Se
dentro la
stazione sembrava fare caldo, ci rendiamo conto che fuori è ancora
peggio, è
così umido che sembra di essere in India nel periodo dei monsoni. E
sono le 21.
Troviamo il nostro
treno, la nostra carrozza e il nostro
scompartimento con cuccetta “Double”. Appena saliti a bordo ci sembra
di essere
già in Ucraina. Chi ci ritira i biglietti all’entrata e ci controlla i
passaporti è il responsabile del vagone, che qui chiamano “konduktor”.
Questa
parola ci ricorda tanto Pociąg
di Jerzy Kawalerowicz,
un film della
fine degli anni ’50 ambientato su un treno di notte che sembra assai
più
moderno di questo.
Lungo la tratta che
va dalla penisola di Hel a Varsavia, un
uomo e una donna che non si conoscono condividono uno scompartimento
per una
notte. Lui è interpretato da Leon Niemczyk, attore ormai navigato che
pochi
anni dopo sarà il protagonista di Noż
w wodzie
di Roman Polański,
mentre lei è la fantastica Lucyna
Winnicka, moglie del regista: donna
emancipata, colta e, per quanto lo permettessero i tempi, cosmopolita.
Due anni
dopo incarnerà l’indemoniata e ambigua protagonista di Matka Joanna od Aniołów,
sempre diretto da suo marito.
Fa parte del cast
anche il cosiddetto James
Dean polacco, Zbigniew
Cybulski, nei panni di un ragazzo
innamorato della bella protagonista che, a differenza di lui, viaggia
in prima
classe. In una delle prime scene Cybulski si trova appeso all’esterno
di un
finestrino della carrozza nel tentativo di evitare i controlli
severissimi del “konductor”
che non permette a nessuno l’accesso alla prima classe. I treni, che
hanno
accompagnato la maggior parte delle apparizioni di questo attore a
partire
dalla sua prima volta sullo schermo, hanno un impatto deleterio sul suo
destino: l’attore, infatti, a poco più di quarant’anni muore in un
tragico
incidente mentre, come faceva spesso, tenta di scendere da un treno in
corsa.
Il nostro vagone ha
diversi scompartimenti con cuccette ed
ha il pavimento rivestito di una sorta di finto tappeto persiano.
Davanti a noi
una famiglia ucraina composta da un bambino piccolo, una nonna e una
madre a
fatica riesce a infilare dentro il lo scompartimento una valigia, un
passeggino
e un enorme sacco di plastica. Gli altri viaggiatori sono una coppia e
per lo
più uomini soli.
Per fortuna c’è
l’aria condizionata e la temperatura è
piuttosto buona, perché lo scompartimento è stretto e soffocante. Stare
seduti
sulla cuccetta inferiore è scomodissimo e decidiamo quindi di andare
subito a
dormire. Il tavolino e una parte dell’armadio si trasformano in un
microscopico
lavandino, ci sono a disposizione sottilissime saponette, un
asciugamano e un
set di lenzuola a testa fasciate nel cellophane.
Compriamo
dell’acqua minerale tiepida dal “konduktor”, che
la tiene in un frigorifero evidentemente spento. Ci rendiamo conto che
noi
parliamo in polacco e lui in ucraino, ma in qualche modo ci capiamo.
Il treno va piano
ed è rumorosissimo, procede a scossoni e,
dato che la sponda della mia cuccetta è rotta, ho paura di volare di
sotto
durante il sonno. Non è facile addormentarsi, e proviamo a leggere un
po’. Io
mi sono comprata proprio oggi all’istituto ISPAN di Varsavia la rivista
Kwartalnik
Filmowy 57-58 del 2007 che
cercavo da mesi per concludere i miei capitoli sulla scuola polacca e
sulla nowa fala
degli
anni ‘60, mentre Francesco è alle prese con le sue numerose letture in
parallelo.
Quest’anno ha con
sé il libro di
Antoni
Libera su Beckett dal
meraviglioso titolo Jesteście
na Ziemi, na to rady nie ma!,
diventato oramai per lui un’ossessione, e Nieznośna
lekkość bytu,
traduzione
polacca del famoso romanzo L’insostenibile
leggerezza
dell’essere di Milan
Kundera. Quest’ultimo
lo sta rileggendo in polacco perché gli permette assaporare il suono di
uno dei romanzi a lui
più cari in una lingua che molto si avvicina all’originale ceco, ma
anche
perché questa sua traduzione nasconde una storia alquanto interessante:
la sua
autrice, infatti, è niente meno che Agnieszka Holland,
una delle
registe polacche contemporanee più conosciute.
Agnieszka Holland,
come afferma
lei stessa in un’intervista al Newsweek
in occasione della presentazione della raccolta di saggi di Milan Kundera Un
incontro,
conobbe lo scrittore a Praga
nel 1967, quando era al primo anno della scuola di cinema FAMU e lui
era il suo
insegnante di storia della letteratura.
La regista sostiene che avesse un
fascino magnetico, oltre ad essere
molto attraente, e che tutte le ragazze si innamorassero puntualmente
di lui.
Le sue lezioni, secondo quanto racconta la regista, erano le più
interessanti
dell’istituto e aprivano la mente di chi le seguiva a nuovi orizzonti.
Nel 1982 i due si
rincontrano ad
un ricevimento a Parigi, dove nel
frattempo entrambi si sono trasferiti. Lui la riconosce e i due
diventano
amici. E’ così che Kundera dà alla Holland il manoscritto del suo
romanzo,
prima ancora che venga pubblicato, chiedendole cosa ne pensi. Lei se ne
innamora, un po’ perché aveva vissuto a Praga proprio negli anni in cui
è
ambientato, e un po’ perché le ricorda avvenimenti simili che aveva
vissuto in
Polonia.
Gli chiede così di
poterlo
tradurre in polacco e lui, che aveva sempre
avuto un debole per la Polonia (non bisogna dimenticare che considera Witold Gombrowicz
uno dei più
grandi romanzieri del ‘900), accetta con entusiasmo. La versione
polacca del
romanzo diventa quindi una delle prime ad essere pubblicate.
La regista valuta
di fare un
film sul romanzo e trova anche un
possibile produttore, ma presto compare una casa cinematografica
americana che
propone a Kundera condizioni impossibili da rifiutare e non se ne fa
più
niente. La Holland pensa allora a Il valzer degli addii,
ma lo scrittore
l’aveva promesso ad un altro regista, il quale era morto
all’improvviso. A
seguito di questi episodi Kundera si demoralizza e decide di non
permettere mai
più a nessuno di trasporre un suo romanzo in film.
Kundera ha anche
una certa
importanza per noi per un altro fondamentale
motivo: è proprio leggendo il suo L’arte del romanzo, infatti, che
abbiamo scoperto Gombrowicz ed è proprio da qui che è nato il nostro
amore per
la Polonia e poi per Bruno
Schulz. Possiamo quindi
dire che forse senza Kundera non ci troveremmo su questo treno.
Ma torniamo al
nostro viaggio: come in un sogno sentiamo il
rumore di una specie di allarme e qualcuno che bussa alla porta. Fuori
è buio
pesto ma si vede la luce tenue di un lampione e il lampeggiare di torce
elettriche che si aggirano intorno al treno fermo. Forse siamo a
Przemyśl, dove
si passa il confine. Scorgiamo un cartello con scritto Medyka e una
ragazza
bionda bellissima vestita da soldato.
Apriamo la porta e
un omone in divisa ci accende la luce
nello scompartimento e ci chiede di dove siamo, dove andiamo e se
abbiamo con
noi merci da dichiarare. Rispondiamo di no, e sentiamo che il copione
si ripete
in tutti i successivi scompartimenti: bussare, tre domande, bussare,
tre
domande.
Nel frattempo il
treno comincia ad andare avanti e indietro
sulle rotaie come il carrello di una macchina da scrivere: capiamo che
il passo
dei binari è diverso tra Polonia e Ucraina e probabilmente i vagoni
devono
essere adattati al secondo. La nostra motrice con su scritto PKP
ci
passa accanto e se ne va via. Dagli scossoni capiamo che la stanno
sostituendo.
Bussano di nuovo:
questa volta è un ragazzone polacco
piuttosto antipatico che accende la luce nello scompartimento, ci dice
“Documenti, prego” e controlla i passaporti guardando in faccia prima
Francesco
e dicendo “Francesco” e poi me dicendo “Marta”. Poi ce li porta via e
ci lascia
lì ad aspettare per dieci minuti buoni. Sentiamo un susseguirsi di
bussare,
“Documenti, prego” e di nomi di battesimo.
Quando ci
restituisce i passaporti siamo convinti che sia
tutto finito e ci rimettiamo a dormire, ma dopo poco bussano di nuovo.
Questa
volta è una donna ucraina altissima che ci fa le stesse tre domande del
primo
ma in ucraino. Poi ci fa aprire i bagagli per controllarne il
contenuto. Dopo
altri “bussare, tre domande, bussare, tre domande” nei successivi
scompartimenti,
passiamo al controllo passaporti lato Ucraina: un ragazzo gentile ci
dice
“Documenti prego” in ucraino, dice i nostri nomi guardandoci in faccia,
prosegue con il bussare, “Documenti, prego” e i nomi di battesimo nei
successivi scompartimenti lasciandoci lì sulla porta mezzo addormentati
in
attesa dei passaporti.
Mi sembra
all’improvviso di essere nel film Frankenstein
Junior, quando sul treno con cui
arriva Frederick von Frankenstein in Transilvania si susseguono
passeggeri di
diverse nazionalità che dicono tutti le stesse frasi con lo stesso
tono, solo
in lingue diverse:
In America:
Moglie: Harry, quello ha
ricominciato
Harry: E che diavolo
vuoi che faccia?
Moglie: Ma tutti i
giorni!
Harry: Beato lui che ce
la fa.
Controllore: New York, signori, per New York
prepararsi a scendere
In Transilvania:
Moglie: Harry, er wachte schon weider
Harry: So?
Moglie: Aber jaden tag!
Harry: Lass ihm, lass ihm.
Controllore: Transilvania, nachste, jeder
austeigen fur Transilvania
Una volta rientrati
in possesso dei passaporti ci rimettiamo
a dormire, ma per poco: l’ora di arrivo indicata sul biglietto, le
6.03, è in
realtà l’ora ucraina, che è avanti rispetto a quella della Polonia. Ce
ne
rendiamo conto solo quando il “konduktor” ci sveglia dicendo che
l’arrivo è
previsto entro quindici minuti.
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Lwów
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Partire da una
stazione supertecnologica e asettica come
quella di Varsavia, tutta bianca e blu, refrigerata e ordinata e
scendere a
Lwów è un’esperienza non da poco. Uno sciamare di gente con valigie e
sacchi di
tutte le dimensioni affolla i marciapiedi nonostante siano le sei di
mattina. I
tassisti ci inseguono per offrirci a poco prezzo trasporti per Lublino
o
Varsavia. Fa già caldissimo.
Usciamo dalla
confusione e cerchiamo un bancomat. La ricerca
non dà risultati, e decidiamo di cambiare 100 zloty in un “kantor”.
Poi, in cerca dei biglietti del tram, entriamo in un supermercato che
vende
qualunque cosa, dove l’unico elemento di ordine è la fila di persone
che fa
diligentemente il giro di tutto il negozio, come negli “Sklep Alkohole”
a
Varsavia il sabato notte. La venditrice ci fa capire che il biglietto
si compra
a bordo.
Con il tram 9
scendiamo subito dietro l’albergo, che è nel
Prospekt Shevchenko. Si trova in un bellissimo edificio costruito nel
1909 dall’architetto
Zbigniew Brohvich-Lewinski in stile moderno ma con connotazioni
romantico-medievali.
Per fortuna la gentile receptionista ci mette a disposizione subito la
nostra
stanza. Ci facciamo finalmente una doccia e dormiamo un paio d’ore in
un letto
che è un sogno rispetto alla cuccetta dell’intercity “Józef
Chełmoński”.
Appena svegli
facciamo colazione in una pasticceria sotto
l’albergo, dove mangio uno dei croissant più buoni che io ricordi. È
ripieno di
marmellata di mirtilli, e otteniamo l’ennesima conferma che non
esistono
marmellate, succhi o sciroppi di frutti di bosco più buoni di quelli
che si
trovano nei paesi dell’est.
Mi diceva la nostra
amica polacca Kasia che le varietà di
questi frutti, ad esempio in Polonia, sono innumerevoli, tanto che in
italiano
non saremmo mai in grado nemmeno di tradurle. Qui è difficile trovare
un succo,
uno sciroppo o una marmellata fatti genericamente “di frutti di bosco”.
La
varietà di frutti usata è solo una, e quello che mangi o bevi ha sempre
il
gusto vero di quel frutto. Ad esempio, in Polonia si
trovano spesso buonissimi succhi e
sciroppi
di “czarna porzeczka”, il nostro ribes nero, o di “malina”, lampone.
Verso la fine di
questo nostro viaggio, tornati in Polonia,
abbiamo passato tre giorni nella foresta di Białowieża pernottando in
un
albergo costruito in una stazione che aveva annesso uno dei ristoranti,
a
nostro parere e non solo, più buoni di tutta la Polonia. Una mattina
abbiamo
trovato sul buffet della colazione un ottimo frullato fatto con panna
acida e
more, mentre una sera abbiamo mangiato un’impalpabile meringata con
dentro
panna montata e “jagoda”, altra bacca simile al nostro mirtillo.
Quest’ultima
ci è stata servita da un cameriere canterino che, per spiegarci come si
dice
“meringa” in polacco, si è messo a cantare - Beza… Bezame mucho….
I frutti di bosco
diventano non solo marmellate, ma anche
salse o contorni per i piatti di selvaggina. Ogni mattina vedevamo le
cuoche
che uscivano di buon ora dalla cucina e si inoltravano nel bosco con
grossi recipienti
per raccoglierli. Capisco perfettamente la rabbia di Adela, la
domestica di
Bruno Schulz, quando i pompieri ubriachi bevono in una sola volta tutta
la
scorta di “sok malinowy”, succo di lampone,
da
lei preparata personalmente con tanta fatica!
Parlando di Schulz
mi vengono in mente i suoi disegni, e non
posso non notare che qui a Lwów le donne hanno veramente delle gambe
lunghissime. Personaggi ben più autorevoli se lo sono chiesti prima di
me, come
ad esempio Gad Lerner
in Scintille
o Francesco Cataluccio
in Vado a vedere se
di là è meglio: come fanno
a camminare con quei tacchi altissimi e sottilissimi sul selciato
sconnesso di
Lwów? Mistero!
Non siamo ancora
arrivati al Rynek,
che
qui chiamano Rynok, ma ci rendiamo conto che Lwów è una città
bellissima. Ci
dirigiamo subito verso il quartiere ebraico, delimitato da due vie
piene di
ristoranti con i tavolini fuori, uno dei quali è famoso per la sua
cucina
ebraica e per il fatto che non ha i prezzi sul menu perché bisogna
contrattare
con l’oste per il pagamento.
Una delle due vie,
la Staroyevreyska, sbuca in una piazzetta
dove un tempo c’era una sinagoga. E’ piena di tavolini e nel suo lato
est ha
una specie di avvallamento, come la buca dell’orchestra a teatro. In
esso si
trova una tettoia con sotto una serie di griglie con la brace e
un’insegna con
l’invitante scritta: “Grill”. Mi sa che abbiamo già capito dove
ceneremo
stasera.
Questa piazzetta,
dove si trovano anche i resti
dell’arsenale, termina con una stradina che svolta a sinistra e ci
porta alla
chiesa della Sacra Comunione. C’è in corso un matrimonio, mentre
all’esterno
due signore un po’ attempate in abiti simil-tradizionali si fanno
fotografare
in pose provocanti da un giovane fotografo. C’è anche la statua di Nikifor, pittore
naif polacco analfabeta e
quasi del tutto inabile a parlare, vissuto in povertà tutta la vita e
divenuto
famoso solo poco prima della morte.
Sugli ultimi anni
della sua vita ha girato un film Krzysztof
Krause insieme alla moglie Joanna Kos-Krauze.
Questa coppia di registi, subito prima della morte di lui avvenuta nel
2004,
sono autori di un’altra bellissima pellicola sulla poetessa rom polacca
Bronislawa
Wejs, detta Papusza;
e
siccome tutte le strade portano a Schulz, bisogna senza dubbio
ricordare che
chi ha scoperto questa poetessa negli anni successivi alla seconda
guerra
mondiale, vivendo insieme alla sua comunità per qualche tempo, fu
proprio Jerzy Ficowski,
esperto di cultura ebraica e
zigana che divenne il più grande esperto e primo scopritore proprio del
nostro Bruno Schulz.
Continuando la
nostra passeggiata ci troviamo in un’altra
piazza che ha al centro la statua di un uomo con un libro in mano: è
Ivan
Fedorov, uno dei primi stampatori russi nato all’inizio del 1500.
Erudito e
poliglotta, in via Nikolskaya a Mosca fondò il primo stabilimento
tipografico.
A Lwów si trovano la sua tomba ed un museo a lui dedicato. La piazza è
piena di
persone che vendono libri antichi, di cui molti per forza di cose sono
in
lingua polacca. Non riusciamo a resistere alla tentazione e ci
compriamo un
libro del 1936 che si intitola Zasady
pisowni polskiej i interpunkcji ze slownikiem ortograficznym, ovvero Principi
di ortografia polacca e punteggiatura con
dizionario ortografico.
Ce lo vende una signora gentile che parla perfettamente polacco.
La cena al “Grill”
ci soddisfa alquanto, Francesco si mangia
due bistecche. Il giovane cameriere impacciato cerca di comunicare in
un
inglese difficoltoso, ma quando vede che parliamo polacco si rasserena
e alla
fine ci insegna a dire “grazie” in ucraino. C’è un certo numero di
turisti, ma
davvero pochi considerata la bellezza della città. La cosa certa è che
non
sembra di essere in un paese in guerra: l’atmosfera è, almeno
apparentemente,
rilassata e vacanziera. L’unico elemento polemico che abbiamo visto
fino ad ora
in Ucraina è rappresentato dalle bancarelle sul Rynok che vendono
zerbini e
carta igienica con sopra stampata la faccia di Putin.
Dopo cena partiamo
alla ricerca del Pub Berlin-Lemberg, che
Francesco ha visto pubblicizzato da qualche parte e dove vuole a tutti
i costi
andare per bere una birra. Io, invece, assaggio un meraviglioso succo
di
ciliegia, che forse non avevo mai bevuto prima, e come Francesco con le
bistecche faccio subito il bis.
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Drohobycz
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Alle dieci di
mattina siamo alla stazione degli autobus di
Lwów. Per arrivare alla biglietteria attraversiamo un piazzale pieno
fino
all’inverosimile di autobus di tutte le dimensioni e colori,
parcheggiati in
modo apparentemente casuale. Ci
chiediamo come fanno, quando devono partire, a sbrogliarsi da quel
caos.
Raggiunta la biglietteria incolumi, sebbene un po’ affumicati dalle
marmitte,
chiediamo un bus per Drohobycz. La signora ci fa segno di fare in
fretta e ci
indica un piccolo vecchissimo autobus bianco con una striscia azzurra
già in
moto a qualche metro di distanza.
Compriamo in tutta
fretta il biglietto e saliamo, sedendoci
negli ultimi posti. L’aria condizionata non c’è, ma per fortuna il bus
non è
troppo affollato. Partiamo quasi subito, senza saper bene come
torneremo, visto
che gli orari dei bus Lwów-Drohobycz sono sia scritti su internet che
appesi
alla biglietteria, mentre quelli di ritorno non siamo riusciti a
saperli
nemmeno facendo telefonare la receptionista del nostro albergo alla
stazione
degli autobus. Rassicuro Francesco dicendo: - Se da qui a là c’è un
pullman
ogni quaranta minuti, per forza ci sarà più o meno la stessa frequenza
per il
ritorno!
Il pulmino si ferma
ad ogni angolo di strada a far salire
chiunque faccia un segno. I posti presto finiscono, e notiamo con
curiosità che
gli uomini, in particolare i giovani, man mano si alzano per far sedere
le
donne. Una signora ci fa cenno di stringerci e si siede appiccicata a
Francesco
tra il suo sedile e quello della sua vicina. I passeggeri continuano ad
aumentare così per tutto il viaggio, finché non arriviamo alla stazione
ferroviaria di Drohobycz e tutti scendono con sacchi e sacchetti. Alla
fine
l’autista svuota il piccolissimo portabagagli dell’autobus.
Come prima cosa
cerchiamo di capire come tornare a Lwów.
Parliamo con molta difficoltà con la signora alla biglietteria della
stazione:
non sappiamo perché quando ci parlano in ucraino a volte capiamo
benissimo
quello che ci dicono, mentre a volte proprio non c’è verso. Ci
chiediamo se
magari qualcuno non parli proprio ucraino ma qualche dialetto, come ad
esempio
il galiziano. Comunque un po’ a gesti scopriamo che il c’è un treno
alle 17.00.
Fuori, invece, se volessimo ripetere la torrida esperienza del piccolo
autobus
bianco e azzurro, c’è un biglietto con gli orari: ci sono partenze
circa ogni
ora.
Francesco decide di
chiamare una guida che aveva trovato su
internet, che organizza tour di Drohobycz mirati ai luoghi Schulziani.
La guida
risponde e parla un inglese stentato.
Francesco si scusa per il poco preavviso
e le chiede se è disponibile.
Lei dice di sì e propone di incontrarsi al Rynok suggerendoci di
prendere il
tram 1 o 9. Francesco rimane un po’ perplesso, perché alla stazione non
c’è
l’ombra di un tram ma lei ribatte di arrivarci come vogliamo, e di
richiamarla
quando siamo al Rynok. E così facciamo: Francesco la richiama e le dice
che ci
troviamo davanti al Burger Club al numero 3.
Lei ribatte che al
numero 3 di piazza Rynok c’è una farmacia
che fa angolo, e ci chiede di cercarla. Nella piazza ci saranno almeno
tre
farmacie, ma nessuna fa angolo e nessuna è al numero 3. Francesco è
perplesso,
e io comincio a pensare che forse abbiamo preso l’autobus sbagliato e
in realtà
crediamo di essere a Drohobycz, ma non lo siamo. La guida arriva a dire
a
Francesco: - You don’t know where you are. Francesco le risponde che sa
esattamente di essere in piazza Rynok, 3. Infine si decide a fare la
fatidica
domanda che forse avrebbe dovuto fare dall’inizio: - Are you in
Drohobycz?.
Svelato l’arcano: lei si trova a Lwów!
Francesco si scusa
e le spiega di avere trovato il suo
numero su una pagina web su Drohobycz, lei si scusa a sua volta e
spiega che ovviamente
non le è possibile raggiungerci per accompagnarci. Suggerisce di
chiedere una
cartina della città nel municipio, che si trova in un edificio in mezzo
alla
piazza. Ci dirigiamo verso l’ingresso aspettandoci un cartello blu con
una “i”
di “Informazioni” scritta sopra, ma non c’è nulla. Proviamo a chiedere
ai
passanti, ma nessuno sa dell’esistenza di un centro informazioni per il
turismo. Sembrano quasi spaventati dalla domanda.
Decidiamo con gran
faccia tosta di entrare nell’edificio.
Chiediamo a un signore incontrato per le scale, il quale ci dice due
parole
che, sebbene un po’ storpiate, assomigliano proprio a “drugie piętro”,
secondo
piano in polacco, e poi ripete due volte qualcosa di simile a “trzy”,
che in
polacco vuol dire “tre”. Cerchiamo inutilmente la stanza tre al secondo
piano,
poi capiamo che forse intendeva la stanza trentatre. Proviamo a bussare
all’ufficio
con questo numero, che tuttavia risulta identico a tutti gli altri.
Sulla
soglia appare una ragazza con la faccia simpatica. Le diciamo
semplicemente
“mapa”, per dirle che avremmo bisogno di una cartina. Lei si mette a
cercare:
le ha solo in ucraino. Nel frattempo ci chiede che lingue parliamo.
Quando sente la
parola “polski”, polacco, si rasserena
visibilmente, poi si scusa di non parlare abbastanza bene questa lingua
perché,
dice, non ha quasi mai occasione di esercitarsi. In realtà lo parla di
gran
lunga molto meglio di noi! Ci chiede se possiamo tornare domani, quando
ci sarà
una visita guidata alla torre del municipio, che oggi purtroppo è
chiusa. Ma
stasera dobbiamo tornare a Lwów e le chiediamo se per caso conosce
qualche
guida che possa accompagnarci in un tour per i luoghi Schulziani.
Ci propone un suo
amico. Lo chiama al telefono e ci
riferisce che questi ha degli impegni precedenti, ma se riesce a
liberarsi la
richiamerà tra una decina di minuti. Nel frattempo decide di
accompagnarci lei
stessa in cima alla torre. Ci chiediamo se in Italia sarebbe mai
successo che
un’impiegata comunale si prendesse la briga di accompagnare due
sperduti
turisti in un tour sulla torre del municipio… Ci guida lungo i grigi
corridoi
fino all’ufficio del signore che ci aveva dato indicazioni per le
scale, da cui
prende in consegna le chiavi.
Saliamo un
interminabile numero di gradini: dall’alto della
torre si vede tutta la città e nonostante il sole a picco è una vista
molto
piacevole. Intanto la nostra guida improvvisata ci racconta della
guerra, dei
ragazzi che vanno volontari al fronte e che tornano feriti,
traumatizzati e
della mancanza di strutture per dar loro appoggio sia economico che
psicologico. Ci chiede cosa si dice di tutto questo da noi, e noi non
possiamo
che risponderle che della guerra in Ucraina non si parla affatto.
Poi
ci
accompagna giù in piazza dove presto ci raggiunge il nostro
accompagnatore, il
giornalista Leonid
Golberg.
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I
luoghi Schulziani
|
Su
quella pianta, disegnata nello stile delle vedute
barocche, il quartiere della Via dei Coccodrilli spiccava come un vuoto
bianco,
lo stesso con cui nelle carte geografiche si suole indicare le regioni
polari,
i paesi inesplorati e di incerta esistenza. Solamente le linee di
alcune strade
vi erano disegnate a tratti neri e provviste di nomi scritti in
caratteri
semplici, non ornati, a differenza dei nobili caratteri romani delle
altre
scritte.
Rileggendo questo
passo mi viene in mente che anche su
Google Maps la cartina di Drohobycz è stranamente scarna.
Con Leonid Golberg
attraversiamo il Rynok verso est e
finiamo subito nella famosa “Via dei Coccodrilli” (oggi le vie Mazepy e
Stryjska), quartiere che ai tempi di Schulz rappresentava la zona più
degradata, e allo stesso tempo più pittoresca, della città, dove
svolgevano le
loro attività mercanti senza scrupoli, prostitute e chiunque cercasse
espedienti per sbarcare il lunario. Infondo ad essa Golberg ci indica
l’incrocio di due stradine dedicate a due scrittori: una al nostro, e
una a
Józef Ignacy Kraszewski. Lì si trovava anche il primo bordello di
Drohobycz e
il teatro di cui Schulz parla ne Le
botteghe color cannella.
Ci
ritrovammo ancora una volta in quella grande sala male
illuminata e sporca, piena di un sonnolento brusio umano e di confusa
baraonda.
Ma quando ci fummo aperti un varco tra la folla, dinnanzi a noi emerse
un
immenso sipario azzurro pallido, come il cielo di un altro firmamento.
Grandi
maschere dipinte, rosee e paffute, affioravano nell’enorme estensione
di tela.
Quel cielo finto si espandeva e fluttuava in lungo e in largo,
gonfiandosi al
soffio potente del pathos e dei grandi gesti, all’atmosfera di quel
mondo
artificiale e scintillante che si ergeva là, sulle impalcature
risonanti del
palcoscenico. Il fremito che percorreva la superficie di quel cielo, il
respiro
di quell’immensa tela da cui crescevano e prendevano vita le maschere,
tradivano l’illusorietà del firmamento, generavano quel palpito di
realtà che
nei momenti metafisici avvertiamo come il balenare del mistero.
Le
maschere sbattevano le palpebre rosse, le labbra
colorate sussurravano silenziosamente, e io sapevo che presto sarebbe
venuto il
momento in cui la tensione del mistero avrebbe raggiunto lo zenith, e
allora il
cielo rigonfio del sipario sarebbe esploso davvero, sollevandosi a
mostrare
cose inaudite e stupefacenti.
Procediamo e
svoltiamo a destra: Golberg deve farsi
consegnare le chiavi del museo Schulz e a questo scopo ci conduce al
Centro di
polonistica Igor
Meniok,
dove
ci presenta una lettrice di polacco, mostrandole poi con aria di
rimprovero le
cartine di Drohobycz con indicati i luoghi di interesse in cui non
appare
nemmeno una volta il nome di Schulz.
Ci spiega che il
centro è stato fondato dal giovanissimo
Igor Meniok. Giovane ucraino grande sostenitore dell’amicizia
polacco-ucraino-ebraica, ha imparato il polacco specificatamente per
studiare
Schulz dirigendo la prima edizione del Festival
internazionale di Bruno Schulz a Drohobycz. Ci indica la
sua fotografia
nell’atrio: è morto improvvisamente nel 2005 a trentadue anni per un
attacco di
cuore. Ora la nuova direttrice del festival e del centro è sua moglie
Wiera.
Usciti dal centro
procediamo sulla via Stryjska e svoltando
a destra raggiungiamo un cancello che si affaccia su un cortile coperto
di ghiaia.
Siamo alla Sinagoga Grande. La facciata è stata ristrutturata di
fresco, ma non
ci fermiamo a guardarla. Golberg gira intorno all’angolo sinistro e si
avvicina
ad una casetta che si trova subito dietro. Un cane libero e piuttosto
brutto ci
corre incontro e un ragazzo gioca a pallone davanti a un garage di
lamiera
aperto. La nostra guida gli chiede se il padre è in casa, ma il ragazzo
con
noncuranza risponde di no. Stiamo per andarcene, quando dalla porta
aperta
della casetta fa capolino una donna, probabilmente la madre, che
accetta di
accompagnarci a visitare l’edificio.
Ci piace l’idea che
la sinagoga venga aperta apposta per
noi. Dentro è tutta scrostata, ma vi si intravedono scritte ebraiche su
sfondo
blu. Doveva essere bellissima. A metà altezza tra pavimento e soffitto
ci sono
ancora delle travi di metallo che probabilmente costituivano un
soppalco,
perché l’edificio durante il comunismo era stato utilizzato come
magazzino di
mobili. La sinagoga, ci dice Golberg nel suo polacco velocissimo e non
sempre
comprensibile, dopo la caduta del comunismo è stata affidata alla
comunità
ebraica di Drohobycz la quale, dopo le stragi naziste, è divenuta
talmente
esigua da non potersi permettere di risistemarla. Golberg ci dice che
sembra
che il parziale restauro sia stato finanziato da una famiglia di ebrei
americani.
Di fronte alla
sinagoga ci indica il luogo in cui si trovava
il vecchio cimitero ebraico, dove probabilmente erano stati seppelliti
i
genitori di Schulz. Più a est, invece, si trova la fossa comune dei
tempi
dell’occupazione tedesca. E’ un po’ fuori città, nel bosco, ma il
nostro
accompagnatore, che ha oramai una certa età, ci dice che con questo
caldo non
ce la fa ad accompagnarci fino là. Torniamo verso il centro e
percorriamo una
strada in cui Golberg ci mostra alcune case che hanno la particolarità
di avere
i balconi più antichi del resto della costruzione e ci ritroviamo
nell’angolo
nord-ovest del Rynok, dove si trovava una volta la bottega del padre di
Schulz.
Qui davanti
incontriamo un ingegnere petrolifero francese
che si mette a chiacchierare col nostro accompagnatore prendendolo
scanzonatamente in giro per il fatto che va in giro con gli zoccoli ai
piedi: -
avec le sabots… . Comincia a parlare con noi in francese, raccontandoci
che da
anni vive a Drohobycz dove insegna all’università. Poi ci chiede cosa
pensiamo
dell’Ucraina e in due mosse inizia a parlare male dell’Italia. Golberg
taglia
corto, gli dice - Bonne chance! E ce ne andiamo verso nord.
Facciamo
un altro
incontro: questa volta è un medico che il nostro accompagnatore
definisce un
eroe di guerra. E’ sulla cinquantina, molto muscoloso e abbronzato e ha
in mano
delle scatolette di farmaci. Ci racconta che va e viene dal fronte per
portare
i medicinali, e fa il modesto dicendo che non è un eroe di guerra ma
solo un
medico. La prossima tappa è il vecchio edificio dello Judenrat dove
Schulz
aveva appena ritirato i documenti che avrebbero dovuto permettergli la
fuga, e
davanti al quale fu invece brutalmente ucciso. Il luogo è ora segnalato
da una
targa.
E’
buffo perché
noi, i turisti, abbiamo dimenticato a casa la macchina fotografica e ci
concediamo soltanto qualche triste scatto col cellulare, mentre
Golberg, la
guida, ha una grossa borsa piena di macchine fotografiche. Ritrae noi e
la
città di continuo, il che è strano, considerato che abita lì e che noi
non
siamo persone famose. Si giustifica dicendo che una città si trasforma
ogni
giorno, e che a lui piace documentarne i cambiamenti.
Scendiamo
ancora
una volta verso sud lungo la via Jagełłonska
per passare davanti alla casa in cui lo scrittore abitò con la
sorella dopo la morte di suo padre Jakub. Seguendo un itinerario un po’
a zig
zag, risaliamo verso l’università lungo la via Szewczenko,
fiancheggiata da
alcune bellissime ville che varrebbero comunque una visita a Drohobycz
anche
senza interessi letterari specifici o da “turisti della memoria”.
L’università
una
volta era un ginnasio statale, e il nostro vi insegnava disegno e
applicazioni
tecniche. Nell’aula vicino a quella dove lui teneva le lezioni c’è il
museo, o
la meglio detta la “Izba Pamięci”, di Schulz. Si tratta di una stanza
di circa
25 metri quadrati piena di libri, fotografie e curiosità interessanti.
Qui
conosciamo Grzegorz
Józefczuk, presidente del
festival di Bruno Schulz di
Lublino e direttore artistico di quello di Drohobycz, nonché dottore
honoris
causa e massimo esperto di Schulz, il quale a quanto pare sta
interrogando
degli studenti.
Appena
entriamo Józefczuk
fa uscire in gran fretta i ragazzi e con grande entusiasmo inizia a
mostrarci
tutto quello che ha raccolto in questi anni: fotografie, edizioni di Le botteghe color cannella e Il sanatorio all’insegna
della clessidra in tutte le
lingue compreso il mandarino,
cataloghi del festival di Schulz che si tiene ogni due anni nei quali
scorgiamo
qualche faccia conosciuta, filmati con interviste a Ficowski, una foto
di
Schulz durante una lezione nell’aula accanto, insomma un po’ di tutto.
C’è
anche una delle
prime edizioni di Ferdydurke di Gombrowicz illustrata proprio da Schulz.
Grzegorz Józefczuk ce la mostra con grande orgoglio, ed è ancora più
entusiasta
quando vede la nostra reazione, perché ci riesce davvero difficile
mantenere
l’entusiasmo a livelli civilmente accettabili. Prima di andarcene ci
chiede di
firmare il registro dei visitatori e di scrivere una dedica o un
pensiero.
|
Ritorno
a Lwów
|
Golberg è
stanchissimo e si lamenta continuamente del caldo,
e in effetti ha ragione. Dice che in Ucraina ricorda temperature anche
più alte
di questa, ma che un’umidità simile non l’aveva mai vista. Propone di
andare a
bere una birra lì vicino, in un locale con gli ombrelloni in un
cortile. Sposta
il tavolo a suo piacimento e si vede che è come a casa sua, al punto
che
d’improvviso ci chiede di seguirlo sul retro dell’edificio. Qui ci fa
vedere un
muro a venti centimetri dal quale è stato costruito il muro
dell’edificio
dentro il quale si trova il bar. Ci fa notare che è molto antico e
chissà
quante ne ha viste, poi stacca un pezzettino di mattone sfaldato e ce
lo regala
come ricordo di Drohobycz.
Dopo la birra ci
accompagna alla fermata del bus che ci
porta alla stazione. Prendiamo il treno delle 17.00. Mentre aspettiamo
noto una
signora con due sacchi enormi di plastica, uno pieno di cose da
mangiare, uno di
cose da bere annegate nel ghiaccio. Forse quello è il “servizio bar”
del treno,
ma mi chiedo come farà a muoversi nel corridoio tra i sedili. Poi
capisco: il
treno ha due o tre vagoni massimo, è grigio scuro, ha tre file di posti
larghissimi, poi un corridoio di più di un metro e altre tre file di
sedili. E’
enorme, rispetto ai nostri treni.
Ci sediamo su due
dei tre sedili di destra, scelti
oculatamente in base alla posizione del sole. Nei tre sedili di fronte
c’è una
ragazza con due gambe lunghissime che non sa come incastrare dietro la
sua
valigia e che ascolta la musica dal cellulare con le cuffiette. Qualche
sedile
più in là ci sono due mammine bellissime, eleganti e biondissime con
due
bambine di circa quattro anni altrettanto belle eleganti e bionde. Il
treno
parte puntuale e non troppo affollato, chissà che non si viaggi più
comodi che
all’andata.
Alla prima fermata
inverte la rotta, vanificando i miei
calcoli sulla posizione del sole. Poi inizia a fare una serie di
fermate in
piena campagna: accanto alle rotaie si vedono solo cartelli in
cirillico, ma
non ci sono né pensiline, né case a portata d’occhio. Dai canneti
vicino alle
rotaie spuntano decine di persone: famiglie intere, donne di una certa
età,
ragazze con bambini, tutti con i capelli bagnati, i costumi da bagno
sotto i
vestiti leggeri e le immancabili enormi borse. Capiamo che nei dintorni
devono
esserci dei laghi o degli stagni dove la gente va a cercare refrigerio
da
questo clima tropicale.
Ad ogni fermata
salgono più persone, finché ci troviamo di
nuovo stretti come sardine in mezzo a un paio di donnone di mezz’età
che
passano il tempo a spettegolare. Una signora dall’altra fila di sedili
offre a
tutti una mentina, anche a noi. Passa anche il “servizio bar” che vende
bibite
fresche.
Le signore
rifuggono il vento, si mettono il foulard in
testa e chiudono i finestrini nonostante faccia un caldo tremendo. La
nostra
amica Kasia, che incontreremo qualche giorno dopo in Polonia in un
paese dove
non esistono i taxi che si chiama Zwierzyniec, ci dirà che le donne
ucraine
fanno sempre così.
Mi chiedo se alla
prossima fermata la gente si attaccherà
fuori dal treno, come Cybulski, o si arrampicherà sul tetto come nella
sequenza
iniziale del film di Kazimierz
Kutz Nikt
nie woła,
in
cui la telecamera riprende dall’alto l’uscita da una galleria di un
treno con
centinaia di passeggeri con fagotti e valigie seduti sul tetto. Nel
film si
tratta di persone che tornano a casa dopo mesi o anni di spostamenti
dovuti
alla guerra, o che fuggono in un remoto paesino di provincia perché
inseguiti
da chissà quale nemico. Nel nostro caso, invece, si tratta di
vacanzieri di
ritorno in città.
Ma per fortuna
siamo arrivati, puntualissimi, a Lwów.
Scendiamo dal treno e ci sembra che in città faccia quasi fresco
rispetto alla
temperatura da sauna che abbiamo appena lasciato. Imbocchiamo senza
pensarci la
lunga strada di fianco alla stazione, piena di gente che vende oggetti
di
qualunque tipo esposti in bella vista su coperte o cartoni stesi per
terra sul
marciapiede.
Ci rendiamo conto
che non siamo scesi alla stessa stazione
del giorno prima, oppure che siamo usciti da un’altra parte, perché
quella
strada non l’abbiamo mai vista. Passa il 9, che dovrebbe portarci in
albergo,
ma non si capisce dov’è la fermata e in compenso ci troviamo su un
marciapiedino strettissimo tra la strada e le rotaie, tanto che
rischiamo di
essere travolti o dal tram o dalle auto. Una signora ci spinge
gentilmente poco
più in là. Le chiediamo indicazioni e ci risponde in italiano
indicandoci la
fermata in direzione del centro.
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Ritorno
in Polonia
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Il giorno dopo
siamo di nuovo alla stazione dei pullman, ci
ha accompagnati una tassista che parla italiano perfettamente. Questa
volta
abbiamo un biglietto stampato comperato su un sito internet ceco. Nella
baracca
di metallo che funge da biglietteria c’è la stessa signora di ieri. Le
facciamo
vedere il foglio, e lei ci risponde semplicemente - Tam, che vuol dire
“là”,
indicando una panchina in pieno sole. La guardiamo perplessi, perché ci
sembra
che lì dove ci ha indicato non ci sia spazio per alcun pullman che non
sia uno
di quelli piccolini che plausibilmente non intraprendono viaggi
internazionali.
Lei ripete la
stessa parola, poi, nonostante abbia parlato
in ucraino, capiamo che dice di sederci sulla panchina e aspettare il
“dyspetcher”. Non sappiamo bene cosa sia il “dyspetcher” e la panchina
sotto il
sole cocente non ci ispira affatto, perché se possibile fa ancora più
caldo di
ieri. Ma tanto non c’è altra scelta, la piccola tettoia della
biglietteria è
piena di gente in coda per i biglietti e la sua esigua ombra non è
accessibile.
Aspettiamo. Un signore ci chiede dove dobbiamo andare, forse è un
tassista, o
un autista di pullman. Gli mostriamo il biglietto e lui ci ripete con
gran
sicurezza: - Tam, tam! Indicandoci la stessa panchina che ci aveva
indicato la
signora. E’ oscura questa relazione tra la panchina e l’autobus.
Ad un tratto una
delle signore che lavoravano alla
biglietteria esce dalla casetta di lamiera gridando a gran voce
qualcosa che
somiglia a “Liublin”. Un capannello di gente con le valigie si
raccoglie
accanto a lei, proprio vicino alla panchina e capiamo che sta riunendo
i
viaggiatori per Lublino. Ecco svelato il mistero della panchina! Ci
avviciniamo, ci conta e poi ci dice di seguirla, iniziando uno slalom
velocissimo tra autobus grandi e piccoli parcheggiati in tutte le
posizioni. La
seguiamo nel caldo torrido del piazzale, reso ancora più letale dai
tubi di
scappamento che sputacchiano fumo nerissimo in tutte le direzioni, è
una massa
di lamiera abbagliante e rovente in continuo movimento, abbiamo paura
di
esserne travolti.
Ma ecco il nostro
autobus, più grande degli altri, bianco e
blu e con targa ucraina. L’autista ci controlla i passaporti, ci mette
i
bagagli nel vano apposito e ci fa salire. Avevo prenotato i posti
calcolando
che avremmo viaggiato verso nord, e tenendo conto che essendo
pomeriggio il
sole sarebbe stato alla nostra sinistra. Ci sediamo soddisfatti di
essere
riusciti a trovare il nostro autobus in quel marasma e partiamo
puntualissimi.
I nostri compagni di viaggio sono per la maggior parte donne ucraine
sui
quaranta. Poi ci sono una giovane coppia, un ragazzino con i capelli da
moicano
e la chitarra e una bellissima ragazza da sola, anch’essi ucraini. C’è
anche
una signora polacca piuttosto anziana.
Il traffico
cittadino è intenso, l’aria condizionata
consiste in una ventola rumorosissima che spara aria tiepida. Dopo
venti minuti
constatiamo con disappunto che siamo ancora a Lwów, ma c’è una strana
frenesia
nell’autobus: gente che va e viene, la bella ragazza va a dire qualcosa
all’autista. Il ragazzo con i capelli da moicano sta ansimando e si
sente male.
Capiamo solo qualche parola, sembra che abbia le mani che formicolano e
che non
riesca a respirare.
L’autista ferma
l’autobus a una fermata di quelle delle
normali linee urbane e il ragazzo della giovane coppia accompagna fuori
l’altro
facendolo sdraiare sulla panca sotto la pensilina. Poi si mette a
telefonare,
probabilmente ad un’ambulanza. Una signora scende con loro e sente il
polso
allo sfortunato pallidissimo viaggiatore. L’autista scende con una
boccetta e
gliela fa annusare, o bere… non si capisce bene. Dopo pochissimo arriva
un’ambulanza e prende in custodia il paziente. Restiamo ad aspettare.
Dopo
circa una ventina di minuti il ragazzo esce dall’ambulanza con le sue
gambe,
riprende i suoi bagagli che qualcuno gentilmente aveva scaricato
dall’autobus e
risale a bordo per riprendere il viaggio.
Ci auguriamo che
non gli succeda più niente mentre il
veicolo si immette nuovamente nel traffico cittadino. Dopo poco più di
un’ora
siamo alla frontiera di Hrebenne. Una lunga fila di automobili aspetta
il proprio
turno, mentre noi seguiamo una corsia preferenziale. Si ripete la
trafila del
treno con le stesse domande: ci chiedono da dove veniamo, dove andiamo,
e se
abbiamo merci da dichiarare. Poi, col passaporto in mano, ci guardano
in faccia
uno a uno e ci chiamano col nome di battesimo. Spariscono infine col
nostro
passaporto per un tempo indefinito. Siamo ancora dalla parte ucraina
della
frontiera.
Percorriamo ancora
un chilometro e ricomincia tutto uguale
dal lato polacco, con la differenza che quando la graziosa e mascolina
ragazza
polacca in mimetica controlla il passaporto di Francesco comincia ad
aggrottare
le sopracciglia perplessa. La sua foto sul passaporto è di parecchi
anni fa,
lui aveva i capelli lunghi e la barba di qualche giorno. Adesso,
invece, ha i
capelli più corti e la barba più lunga, e gli occhiali diversi.
La soldatessa,
incuriosita soprattutto dal fatto che due
italiani si trovino qui, e che per di più mastichino un po’ di polacco,
ci
chiede perché stiamo passando dall’Ucraina alla Polonia proprio a
Hrebenne, e
proprio in autobus, ci chiede se è la prima volta che usiamo i nostri
passaporti, attraverso quale frontiera siamo entrati in Ucraina, come
siamo
arrivati in Polonia, che documenti abbiamo mostrato per entrare in
Polonia,
dove andremo dopo… Poi non convinta chiede a Francesco un altro
documento.
La foto sulla carta
di identità mette la soldatessa ancora
più in crisi. Qui Francesco è senza occhiali, ha i capelli cortissimi e
niente
barba. Gli chiede di togliersi gli occhiali, e Francesco finisce per
mostrargli
anche la patente. Poi ci fanno attendere un tempo infinito, per poi
farci
scendere tutti dall’autobus e scaricare i bagagli per passarli al metal
detector. Ci chiediamo se non sia a causa delle tre versioni diverse di
Francesco che non coincidono con quella in carne ed ossa…
Approfittiamo della
sosta per mostrare all’autista il nostro
biglietto con la scusa di chiedergli a che ora arriveremo a Tomaszów
Lubelski.
In realtà il nostro obiettivo è ricordargli che non scenderemo
all’ultima
fermata, Lublino, come probabilmente di solito fanno la maggior parte
delle
persone che usufruiscono di quella tratta. Tomaszów, infatti, è un
paesino
piccolissimo dove scenderemo solo per prendere un altro autobus per la
nostra
meta reale, che è Zamość. L’autista spalanca le braccia per farci
capire che,
con questi controlli alla dogana così lunghi, non è assolutamente
possibile
fare previsioni per l’orario d’arrivo.
Finalmente ci
restituiscono i passaporti e riprendiamo il
viaggio. Appena passato il confine i prati sembrano tutti all’inglese,
le case
imbiancate di fresco e le strade perfettamente asfaltate. Le scritte
improvvisamente si capiscono senza troppo sforzo. Passiamo anche da
Bełżec, la
cittadina dal diabolico nome che ricorda Belzebù, dove si trovava un
campo di
sterminio in cui morirono 600.000 ebrei.
In brevissimo tempo
siamo a Tomaszów Lubelski. L’autista,
però, non si ferma in centro ma continua per la sua strada. Ci
chiediamo se per
caso la stazione degli autobus non sia un po’ fuori città, ma la città
è
talmente piccola che finisce subito. Mando Francesco riluttante a
chiedere
informazioni, ma viene fermato dal ragazzo pettinato alla moicana che è
crollato addormentato di traverso su tutti e quattro i sedili di una
fila e
ostruisce il passaggio. Quando
raggiunge l’autista sono passati alcuni minuti.
Questi
si difende
dicendo che non sapeva che dovevamo scendere lì. Francesco ribatte che
alla
frontiera gli aveva chiesto espressamente quanto mancava per Tomaszów
Lubelski e gli aveva anche mostrato il biglietto. L’autobus si divide
in
fazioni. Qualcuno ci dà ragione, dicendo di essere stato testimone
della
domanda di Francesco alla frontiera, altri dicono che non importa dove
dobbiamo
scendere, ma che se non si riparte perderanno l’aereo, visti e
considerati
tutti gli imprevisti di questo viaggio.
Ci sembra di essere
nel romanzo Madame
di Antoni Libera,
uno
dei più interessanti che abbiamo letto negli ultimi anni. Ambientato
negli anni
’60 in Polonia, racconta la storia di un ragazzo che, innamoratosi
platonicamente della direttrice della sua scuola, gradualmente si trova
a
conoscere la realtà del suo paese sotto il regime comunista e
contemporaneamente si avventura nell’età adulta. In un episodio
piuttosto
divertente il protagonista si trova in un autobus per andare
all’ambasciata
francese e una discussione tra un passeggero col biglietto non
obliterato e un
controllore coinvolge tutti i passeggeri. Mentre ognuno dice la sua
l’autista
riparte senza permettere al protagonista di scendere, e questi è
costretto a
scendere dal mezzo ancora in movimento.
Anche i viaggiatori
del nostro autobus hanno tutti qualcosa
da dire. Allora l’autista dice di essersi dimenticato, e che non può
riportarci
indietro perché deve rispettare gli orari. Ci suggerisce di scendere lì
stesso,
dove c’è una fermata, e aspettare qualche mezzo per tornare indietro.
Io sarei più
favorevole a chiedergli di lasciarci al
prossimo paese, dato che questa fermata si trova nel nulla assoluto, ma
Francesco è talmente arrabbiato che decide di scendere dicendo - To
skandal!, che
vuol dire: “È uno scandalo!”. Si tenga conto che tutta la lite è
avvenuta con
Francesco che parlava in polacco e l’autista che rispondeva in ucraino,
basandosi su quelle parole che nelle due lingue sono simili. L’autista
è molto
dispiaciuto, scende per aiutarci a prendere le valigie, ma io mi sono
già
infilata tutta intera nel vano bagagli per tirare fuori i due trolley.
Ci ritroviamo “In
the middle of nowhere”, come dicono nella
nostra amata trasmissione su Radio Rai Tre La
fabbrica dei polli.
La fermata d’autobus dove ci ha lasciati lo sbadato autista è sulla
carreggiata
che stavamo percorrendo, quindi istintivamente ci accingiamo ad
attraversare la
strada per riprendere un ipotetico mezzo, sempre che ne passino il
giorno prima
di ferragosto, in senso contrario. Poi mi viene in mente che Zamość, la
nostra
meta finale, in realtà si trova ancora a nord, e che non è escluso
qualche
autobus diretto lì non percorra proprio questa strada.
Non facciamo in
tempo a girarci per controllare l’esistenza
di qualche biglietto con degli orari, che dal nulla si materializza un
meraviglioso fiammante pulmino con sopra scritto a chiare e grosse
lettere:
Zamość. Lo fermiamo. Per fortuna abbiamo ancora degli Złoty contanti.
Incredibile a
dirsi, ma grazie all’errore dell’autista è
probabile che a Zamość ci arriviamo molto prima del previsto! Il
pullmino è
nuovissimo anche dentro, perfettamente climatizzato e ha come unico
passeggero
una signora sulla cinquantina. Alla radio trasmettono il telegiornale
in
polacco, lingua che, dopo due giorni in Ucraina, ci sembra facile e
comprensibile come l’italiano. Estraggo dalla valigia un buonissimo
cioccolatino Krówkowa Wawel quasi squagliato, purtroppo l’ultimo di una
confezione regalataci dal nostro agente immobiliare a Varsavia, pan
Jacek. Ce
ne mangiamo metà per uno.
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Il
resto del viaggio
|
Le avventure di
questo viaggio non sono finite: quella sera,
dopo un’interminabile cena nel ristorante dell’albergo dove l’unica
altra
cliente oltre a noi sarà una ragazzina giapponese che piange e chatta
sul suo
tablet super tecnologico, ci troveremo a bere wsciekły pies
nella meravigliosa piazza di Zamość. Su un enorme maxischermo in un
angolo
della piazza proietteranno Potop,
con immensi primi piani di un giovanissimo e bellissimo Daniel
Olbrychski. Prenderemo
un taxi tra tanti per tornare in albergo e a guidarlo sarà lo stesso
simpatico
ragazzino che ci è venuto a prendere qualche ora prima.
Il giorno dopo,
atteso invano un autobus perché è ferragosto
e non arriva, prenderemo un taxi per raggiungere Zwierzyniec insieme a
una
signora che aspetta con noi, attratti da un festival del cinema che vi
si
svolge proprio in questi giorni. Il tassista, come Landa in Inglorious Basterds,
all’improvviso ci spiazzerà parlandoci in un perfetto e velocissimo
italiano e
sosterrà di averci già accompagnati da qualche parte qualche anno fa a
Lublino.
Scopriremo presto
che Zwierzyniec è un paesino-trappola
super turistico ma completamente privo di qualunque genere di trasporto
pubblico o taxi. Avendo trovato come unico posto ancora libero per
dormire
un’affittacamere a due o tre chilometri dal centro, ci ridurremo a
camminare
per più di un’ora sotto il solleone delle tre perché la proprietaria ci
ha
detto - To niedaleko, to kawałeczek!,
“non è lontano, è solo un pezzettino di
strada!”.
Annebbiati dalla
camminata incontreremo lì un signore che
esce da un cinema e che ci consiglierà di guardare un film di Sokurov.
Dopo
avergli detto che questo regista non ci piace affatto ci renderemo
conto che ci
sta guardando come se avessimo detto una bestemmia. Il fatto che non si
capisca
affatto bene quello che dice è dovuto probabilmente alla sua origine
russa!
Finiremo
nell’albergo “Lwów” di Chełm con decine di inglesi
di mezz’età che fanno casino tutta la notte come dei liceali in gita e
colonizzano il tavolo della colazione il giorno dopo. Francesco mi
fotograferà
sotto la scritta rossa “Kino” di un cinema di Włodawa, che ha l’insegna
come
quella del nostro Cinema Zuta perché ad essa ci siamo ispirati per
disegnarla.
Costeggeremo tutto
il confine tra Polonia e Ucraina e poi
tra Polonia e Bielorussia lungo il fiume Bug per la seconda volta nella
nostra
vita, e per la seconda volta nella nostra vita la polizia di frontiera
ci
fermerà su quella strada nei dintorni di Sobibor. Questa volta, però,
parliamo
un po’ di polacco, e i due sparuti agenti potranno soddisfare la loro
curiosità
chiedendoci dove andiamo e complimentandosi: - Ładnie mówią Państwo po
polsku ,
“I signori parlano un bel polacco”.
Prenderemo la
strada che porta dritta alla frontiera di
Terespol rischiando di finire per sbaglio in Bielorussia, raggiungendo
così
l’obiettivo di Francesco di vedere finalmente una delle frontiere che
si
potrebbero teoricamente attraversare per accedere a quel paese
misterioso. A
Terespol vedremo il treno più colorato che si ricordi sullo sfondo di
un cielo
azzurrissimo, e poco lontano, quando oramai il Bug non costituisce più
un
confine perché tutte e due le sue sponde diventano polacche, cerchiamo
invano
di attraversarlo in macchina con una di quelle chiatte che nei film Panny z Wilka e Cwał
vengono spinte a mano per trasportare i personaggi nei momenti salienti
delle
loro storie. Peccato, c’è troppo poca acqua, e chissà se oggi sono a
motore?
Dormiremo a
Białowieża in un vagone di lusso di un treno a
vapore fermo arredato in stile zarista nella Stacja Towarowa. Poi ci
troveremo
nella famosa foresta di notte in cerca dello żubr, il bisonte, insieme
ad una
simpaticissima guida di nome Zenon. Zenon ci parlerà come si parla ai
bambini
perché gli abbiamo detto che capiamo il polacco se parlato lentamente e
ci ha
presi alla lettera. E’ vestito da esploratore, ha una bussola ma non la
torcia
elettrica, perché di notte nella foresta si vede meglio senza. Sa
imitare il
canto degli uccelli e a un certo punto fingerà anche di essersi perso.
Dopo
l’avventurosa gita ci snocciolerà una serie infinita di cantanti
italiani degli
anni sessanta che lui adora e che in Polonia tempo fa erano famosi, ma
che come
spesso accade noi non abbiamo mai sentito nominare.
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Marta
Cardinale
e Francesco Prestia © 2015
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