Siamo in Polonia
nel 1962. Da tempo, oramai, il cinema
polacco si occupa quasi esclusivamente di guerra e insurrezione,
affronta
tematiche di carattere prettamente sociale e, al limite, parla di
Nazismo come
critica camuffata al regime comunista in vigore. Con Il coltello nell’acqua per
la prima volta dopo
tanto tempo la macchina da presa si sposta su argomenti più frivoli e
universali, generando non pochi pregiudizi nei confronti del regista.
Le autorità
accolgono questo film con disapprovazione. Anzi,
scatena la rabbia di Władysław Gomułka, segretario del Partito Operaio
Unificato Polacco (KC PZPR, Polska Zjednoczona Partia Robotnicza).
Polanski è
accusato di cosmopolitismo, di glorificare lo stile di vita
capitalista, di
aver creato un ritratto falso e pessimista della società polacca del
tempo, e
di mostrare un’eccessiva propensione per i modelli di vita occidentali.
Insomma, il film sembra tradire i valori sociali e morali che il cinema
invece
dovrebbe diffondere.
Ma non c’è solo
questo: nessuno dei personaggi si sposa con
l’ideale politicamente corretto del tempo.
Andrzej è ben lungi da quello che
dovrebbe essere un vero socialista: va
in giro con una bella moglie, una barca a vela di proprietà e una
macchina
costosa, incarnando un tipo di borghesia snob più che mai stonato
rispetto ai
modelli che si cercava di istillare nel pensiero comune.
L’altro personaggio
maschile, quello che dovrebbe
rappresentare la generazione dei giovani, non ha l’aria di uno che
partecipi
attivamente alla costruzione di un sistema di successo secondo i canoni
imposti
allora, e sebbene contesti apparentemente lo stile di vita del
personaggio più
anziano, in realtà in qualche modo lo invidia e tutti gli indizi
portano a
credere che seguirà le sue orme.
In seguito a tutte
queste considerazioni Gomułka sostiene
che questa pellicola non potrà mai sfondare, ma questa si rivela una
profezia
tutt’altro che azzeccata: grazie, infatti, all’universalità della
storia, alla
maestria del regista, del co-sceneggiatore e del direttore della
fotografia, e,
certamente, alla superba musica di Krzystof Komeda, il film riscuote
immediatamente un grande successo in occidente.
Vince, infatti, il
Premio FIPRESCI a Venezia, che appunto
favorisce il cinema più rischioso, originale e personale, e inoltre
diviene il
primo film polacco candidato all’Oscar. (Bisogna tra le altre cose
tener conto
del fatto che le stesse autorità polacche che avevano criticato il film
furono coloro
che, successivamente, lo spinsero alla candidatura all’Oscar).
Non vince, ma
questo è più che giustificato perché viene
battuto niente meno che da 8 e ½ di Fellini. Piace tuttavia così tanto
che a
Polanski viene offerto di fare un remake a colori con attori americani
di
grande fama. Il giovane regista si rifiuta, affermando che il film è
già
abbastanza bello così e non è necessario farne un’altra versione.
Pare che la
realizzazione del film si sia svolta con non
poche difficoltà. Sul fondo del lago, ancora adesso, sembra che non sia
rimasto
soltanto il famoso coltello, ma anche una macchina da presa caduta
durante una
ripresa difficile. Inoltre Polanski era scosso per la morte dell’amico
regista
Andrzej Munk avvenuta in quei giorni e stava per essere abbandonato
dalla prima
moglie.
Il personaggio del
ragazzo doveva essere interpretato
inizialmente da Skolimowski o dallo stesso Polanski. Pare che Jerzy
Bossak,
direttore della produzione, abbia insistito per scegliere un attore un
po’ più
attraente di quanto non fossero i due registi, tra l’altro piuttosto
bassi di
statura.
Viene così scelto
Zygmunt Malanowicz, un attore non
professionista. Essendo dotato di una voce molto profonda che potrebbe
compromettere l’idea di giovinezza e ingenuità che si vuole attribuire
al
personaggio, sarà lo stesso Polanski a prestargli la voce. Jolanta
Umecka,
invece, viene reclutata dal regista stesso che l’ha conosciuta per caso
in
piscina. Non è un’attrice e anche nel suo caso si dovrà ricorrere a
un’altra
voce, quella di Anna Ciepielewska, attrice. Unico professionista resta
il terzo
e ultimo attore del cast, Leon Niemczyk, che vanta già esperienze con
Andrzej
Munk e Jerzy Kawalerowicz.
Di certo tra le
esigenze del doppiaggio e l’inesperienza
degli attori non si è rivelato semplice procedere con le riprese. Jerzy
Lipman,
direttore della fotografia, è costretto a fare i conti con lo spazio
ristretto
della barca, e le riprese vengono effettuate su piattaforme
galleggianti o
piccole imbarcazioni. Per lo più si utilizza la camera leggera a mano,
le
condizioni meteorologiche sono variabilissime e causano continui cambi
di luce
che aumentano la difficoltà, già grande, di girare circondati
dall’acqua.
Come se non
bastasse la polizia deve continuamente
controllare che le barche dei turisti non si avvicinino, perché durante
le
riprese c’è un enorme affollamento mentre il film deve dare l’idea che
l’azione
si svolga in un periodo fuori stagione.
Nonostante tutte
queste difficoltà, il risultato è un
meraviglioso, morbido, bianco e nero che si sposa perfettamente con i
panorami
nordici, orizzontali e armonici dei laghi Mazuri. Campi lunghi si
alternano a
primissimi piani, variando continuamente il ritmo delle scene.
Un’atmosfera
inquietante pervade tutta la pellicola, e anche quando questo ritmo è
lentissimo e l’azione è praticamente ferma si instaura un clima di
attesa e di
sospensione.
La repentina
alternanza di fenomeni meteorologici rende sì
più difficile il lavoro, a causa dei continui cambi di luce, ma
contribuisce
non poco a incrementare questo senso di inquietudine: si passa dalla
bonaccia
al vento forte, dal sole alla pioggia. Il film si svolge nell’arco di
una
giornata e il tempo viene scandito proprio da questi fenomeni che
decidono
quando la barca si deve fermare, quando i passeggeri devono mangiare,
dormire,
oziare o impegnarsi nella navigazione.
Non manca neanche
l’ironia, nelle immagini. La troviamo ad
esempio nella sequenza in cui il ragazzo, non rassegnato all’immobilità
momentanea dovuta alla mancanza di vento, cerca di remare con grande
fatica:
l’inquadratura è stretta, e solo quando vediamo gli altri due
personaggi ridere
e il campo si allarga fino a un campo lungo capiamo che la barca non
sta
facendo altro che girare in tondo.
Complementare a
questa è la sequenza in cui i due coniugi
sono in acqua e si alza di colpo il vento. Anche qui prevale il moto
circolare
dell’imbarcazione che, in questo caso, è disordinato e veloce mentre la
macchina da presa rimane ferma. Il ragazzo, rimasto solo a bordo e
incapace di governare
la barca, non può far altro che tentare di schivare i colpi delle vele
che
sbattono senza controllo.
La musica di Komeda
sottolinea questo senso di velocità e
intensità di movimento con il ritmo che diventa improvvisamente
frenetico.
Dopo, però, tutto è di nuovo tranquillo. La calma torna sempre, pacata,
sospesa, seppur solo apparente e piena di presagi.
La composizione dei
vari brani musicali e il modo in cui
commentano e connotano l’azione raggiungono livelli davvero notevoli
non solo
in questa scena ma in tutto il film. Secondo me, come in tutti gli
altri film
musicati da Komeda, la musica gioca un ruolo fondamentale e la sua
funzione
potrebbe essere paragonata a quella che aveva ai tempi del muto.
Jerzy Skolimowski,
dal canto suo, gioca con dialoghi
asciutti ed essenziali che sono in perfetta sintonia con le immagini e
la
musica al fine di generare quella sensazione di inquietudine e attesa
che
pervade tutta la pellicola, soprattutto nei momenti in cui il ritmo è
più
lento.
Pugile, oltre che
futuro pittore, regista, sceneggiatore,
attore e poeta, Skolimowski non ha rinunciato a inserire nel film la
cronaca di
un incontro di pugilato: nello spazio ristretto dell’interno della
barca
Andrzej lo ascolta in cuffia per isolarsi dalla voce della moglie
Krystyna che
sta cantando al ragazzo, per penitenza, la canzone “Nie mów nic” (
Non dire niente ).
Il personaggio del
ragazzo si trova in quel momento della
vita in cui non si è né bambini né adulti, cioè “nello smorto evanescente
attimo quando la notte
vera e propria è ormai finita e l’alba non riesce ancora a farsi
strada”.
Simile a un Andrzej Leszczyc skolimowskiano è ingenuo, perso e un po’
tormentato. Vaga senza meta e senza sapere cosa vuole fare da grande,
in balia
degli incontri che fa, casualmente, nel suo cammino.
Invitato sulla
barca “Christine”, forse al fine di creare un
diversivo in quel week-end che avrebbe dovuto essere vissuto
all’insegna di
noia e gesti consueti, è quasi obbligato a salire a bordo. Più che un
invito,
infatti, quello di Andrzej assomiglia a un ordine o meglio ancora a una
sfida.
Viene così
strappato via dal suo ambiente naturale, la terra
ferma. Si trova a disagio, sull’acqua, perché preferisce camminare,
farsi
portare solo dalle proprie gambe. Ma la sua giovinezza gli permette di
adattarsi in modo molto veloce a ogni situazione, anche avversa. E,
infatti,
cammina lo stesso, sull’acqua,
come Cristo.
E come un Cristo
viene messo in croce: prende il sole a
braccia aperte, con un’aureola di corde poste in bell’ordine sotto la
sua
testa. Il corpo magro e spigoloso di Malanowicz appare in una
composizione di
inquadratura in cui regnano forme allungate e angoli acutissimi, così
innaturale e bidimensionale da sembrare un’icona bizantina dai colori
desaturati.
Forse è da questo
momento che dovremo iniziare a guardarlo
come vittima di un sacrificio, perpetrato a suo danno da un marito e
una moglie
che lo usano a turno, rispettivamente, per dimostrare la propria forza
e per
vendicarsi.
Andrzej ha un
atteggiamento superbo di sfida, perché da
subito riconosce in lui se stesso quando era giovane. Un se stesso che
forse ha
un po’ tradito trasformandosi da ribelle in borghese, un se stesso
giovane,
libero, con tutta la vita davanti e quindi da invidiare segretamente.
Il ragazzo, nella
sua bambinesca ingenuità, casca in ogni
tranello ed è pronto a essere vittima di ogni sfida, mentre l’uomo
adulto
sembra avere come unico obiettivo quello di umiliarlo in tutti i modi e
su
tutti i piani.
Oggetto del
contendere e goccia che fa traboccare il vaso:
il coltello.
“Sei
un
bambino, potresti tagliarti.”
Dice Andrzej con
tono paterno, mentre a spingerlo a
quest’osservazione è senza dubbio l’invidia per quell’oggetto.
“Nell’acqua
non serve a niente. Soltanto quando si
cammina da soli, è necessario il coltello.
E’
così, nella
vita.”
Dice il ragazzo,
col tono di un bambino che vuole sembrare
grande e spiegare la vita a chi ha più esperienza di lui; poco dopo la
deriva
si incastra in una secca e sarà necessario il coltello per ammainare
velocemente la vela.
Andrzej ostenta
superiorità e indifferenza ma sotto sotto è
affascinato da quel coltello. Non perde occasione per toccarlo, o per
cercare
di appropriarsene, soprattutto perché ciò dà visibilmente fastidio al
suo
proprietario.
Prima, sul ponte
lontano da ogni sguardo, prova a imitare il
gioco di velocità che faceva il ragazzo con le mani, poi, di sera sotto
coperta, lo lancia ripetutamente contro la parete interna della barca
cercando
di piantarlo nel legno.
Il coltello diventa
lo strumento tramite cui tenta di tenere
in pugno quello che vede come un rivale, l’arma con cui cerca di far
breccia nella
sua apparente indifferenza.
La strategia che
usa per affermare la sua superiorità è
sleale: cerca di “sconfiggere” il ragazzo portando la “battaglia” sul
piano
della maturità e dell’esperienza. Ma in questo c’è qualcosa che non
funziona:
il solo fatto che si ponga in posizione di competizione con un
ragazzino
proprio su questo punto non fa che evidenziare che è la sua stessa
maturità a
dover essere messa in dubbio, e che, di conseguenza, la scelta di
questo “campo
di battaglia” non può che essere un errore.
I continui duelli
cui Krystyna è costretta suo malgrado ad
assistere non sono gare tra due diverse generazioni ma si riducono a
una
semplice lotta tra due maschi per guadagnare le attenzioni di una
donna. Lotta
inutile, dal momento che quest’ultima sembra vivere in uno stato di
imperturbabile lontananza.
Postasi sin
dall’inizio come osservatrice al di fuori di
ogni battibecco, ha un modo tutto suo di moderare i termini delle varie
scaramucce che scoppiano continuamente: affronta la situazione con un
atteggiamento un po’ “ottuso” (come dice Polanski), ma paziente e
consapevole.
Resta come isolata
al di sopra degli altri due, quasi fosse
una creatura ultraterrena, onnisciente. Sa che quella tra i due non è
una vera
battaglia, che non ci sarà una vera supremazia di uno sull’altro perché
i due
sono la stessa persona in due momenti diversi della vita.
“Siete
uguali,
anche se lui il
doppio più vecchio di te, e più forte. Non
sei meglio di lui. Vuoi diventare come lui… e lo diventerai”.
Dice al ragazzo. E
non è un caso che la canzone che canta
per penitenza, che parla di un amore che finisce e di un uomo che non è
più
com’era, la canti al ragazzo, mentre il vero destinatario sarebbe il
marito. E
non la canta con troppo trasporto e rimpianto, sembra più che altro
manifestazione della sua rassegnazione oramai da tempo raggiunta.
Krystyna, infatti,
non sembra particolarmente infelice,
nonostante il comportamento rude e superbo del marito. La sua è una
serenità
basata sull’accettazione: conosce il carattere di Andrzej, è abituata
alla sua
vita con lui e sembra sapere perfettamente fino a che punto lui si
spingerà.
Questo personaggio
non si scompone mai, non si stupisce mai.
O forse lo fa, ma solo per un brevissimo momento, quando si arrabbia
con
Andrzej per aver fatto cadere in acqua il coltello e il ragazzo che
affermava
di non saper nuotare.
Per un attimo è
successo qualcosa che per lei è inaspettato
e all’aumentare della tensione qualcosa si è strappato: Krystyna si
arrabbia,
alza la voce e dice al marito quello che pensa. Lo accusa di aver
invitato
l’ospite solo per mettersi in evidenza, per dimostrare la propria
superiorità a
discapito di un malcapitato.
Lo accusa di aver
ucciso un uomo, anzi, un ragazzino. Lui le
dà dell’isterica, e le rinfaccia che se non fosse stato per lui ora lei
vivrebbe in mezzo ad una strada. Lei lo sfida, gli impone di tornare a
riva a
nuoto e lui scompare.
Mentre, rimasta
sola sulla barca, si toglie il costume
bagnato nell’aria gelida dell’alba torna il ragazzo che si era nascosto
dietro
una boa e la vede senza vestiti. Allora aspetta che si vesta, per
risalire a
bordo. Lo sfogo di Krystyna è durato pochissimo. Ha ritrovato la calma
e la
risolutezza che aveva al momento della partenza, il giorno prima, e
freddamente
gli dice: “Allora
sapevi nuotare”.
Con fare materno lo aiuta ad asciugarsi.
E’ arrivato per lei
il momento di fare qualcosa. E, in
effetti, fa veramente qualcosa: si vendica. Il tradimento di Krystyna
avviene
in una totale assenza pathos. E’ sì il frutto di uno scatto di rabbia,
ma non è
per nulla istintivo. Ha l’aspetto, piuttosto, di un freddo calcolo.
E il ragazzo
diventa, questa volta, la sua vittima
sacrificale, corpo attraverso cui può essere consumata una sottile e
perfida
vendetta. Dopo, questo strumento della vendetta viene abbandonato senza
un
saluto sulla riva e si allontana camminando di nuovo “sull’acqua”, o
meglio sui
tronchi galleggianti. Ha perso il coltello e il passaggio in auto per
tornare a
casa, ma infondo anche lui ha avuto la sua rivincita.
E’ più facile, per
Andrzej, ammettere di essere stato
sconfitto da un ragazzo oppure di averne causato la morte? Sarà
Krystyna
l’unica a conoscere la risposta a questa domanda. Polanski chiude così
questo
bellissimo film, con i personaggi in auto come all’inizio, ma questa
volta
fermi davanti a un bivio. L’atmosfera di sospensione e attesa, oramai,
rimane
cristallizzata nella memoria dello spettatore, per sempre irrisolta.
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