Uno dei generi che ha maggior
successo è quello storico
basato su grandi romanzi di autori nazionali. Ciò avviene un po’ a
causa della
moda generalizzata del momento, un po’ per salvare l’arte
cinematografica, che
in questo momento storico si trova in un una fase di sofferenza: il
numero di
film girati, infatti, sta diminuendo sensibilmente. Inoltre la stessa
Uchwała
cerca di favorire questa tendenza; in un paragrafo si afferma:
Bisogna cercare
tematiche che
esprimano idee
progressiste e che liberino nella nazione e nel popolo lavoratore le
aspirazioni di mille anni di storia polacca, approfittare in questo
ambito
delle eccellenti opere della letteratura polacca.
In alcuni casi ciò si traduce in una
mera trasposizione
cinematografica di opere letterarie. Due esempi di questo genere sono Hrabina Cosel (trad. La contessa
Cosel) di Jerzy
Antczak del 1968, tratto dal romanzo del 1873 di Józef Ignacy Kraszewski
e Pan Wołodyjowski
(trad. Il Signor Wolodyjowski)
di Jerzy Hoffman
dello stesso anno,
tratto dalla trilogia di Henryk Sienkiewicz scritta tra il 1884 e il
1888.
Quest’ultimo ha un certo valore artistico, con Tadeusz Łomnicki come
protagonista e con Daniel Olbrychski nei panni di Azja Tuhajbejowicz,
personaggio scelto da
Sienkiewicz per rendere la propria idea di un certo tipo di “asiatico”
piuttosto selvaggio. La bellissima fotografia è di Jerzy Lipman.
In altri casi, invece, quando ad
esempio chi dirige i film
sono gli autori della Scuola Polacca, si va oltre la mera
trasposizione.
Durante il breve periodo di libertà negli anni subito successivi al
’56, questi
registi avevano avuto l’opportunità di creare dei veri e propri
capolavori. Ora
che le maglie della censura si sono ristrette, diventa difficile per
loro
garantire al pubblico una così alta qualità. L’utilizzo di opere
nazionali già
consolidate permette loro di sopravvivere senza costringerli ad
abbassare il
livello artistico delle pellicole. Essi possono così trovare un nuovo
modo di
comunicare con il pubblico in tempi così difficili, spesso anche
facendo
riferimento alla realtà contemporanea attraverso la narrazione di
storie o
situazioni storico-politiche passate con cui è possibile fare un
parallelismo.
A questo si collegano due film che
aprono e chiudono il
festival di Cannes del 1965: Popioły
(In
italiano: Ceneri sulla Grande armata) di Andrzej Wajda e Faraon (trad. Il faraone)
di Jerzy Kawalerowicz.
Il primo è tratto dall’omonimo
romanzo di Stefan Żeromski
del 1902, del cui adattamento si occupa Aleksander
Ścibor-Rylski; trattandosi di un libro molto corposo, in
tre tomi, si
decide di tralasciare una buona parte delle sottotrame. Il film è
girato per lo
più in esterni e, cosa di cui il regista ancora oggi si rammarica, in
bianco e
nero. Inizia con una sequenza meravigliosa in cui uno stuolo di
invitati già
ubriachi si lancia in una corsa forsennata in carrozza in mezzo a
pianure
sconfinate e innevate per recarsi a una festa in un palazzotto di
campagna.
Protagonista maschile è il giovane Daniel Olbrychski, attore in fase
vertiginosamente ascendente in questi anni, mentre la ragazza da lui
amata è la
bellissima Pola Raksa.
Il film è ambientato a cavallo tra il
700 e l’800, ma Wajda
usa il testo per richiamare in qualche modo le disillusioni della
contemporaneità: ad esempio, il protagonista Rafał ha grandi speranze e
progetti all’inizio del suo percorso, e intraprende mille peripezie per
seguire
un ideale di libertà che lo porta ad arruolarsi nell’esercito polacco
che
combatte al fianco di Napoleone. Ma le sue avventure terminano con lui
quasi calpestato
dalle stesse truppe napoleoniche che gli passano accanto totalmente
indifferenti.
Altra
scena tanto meravigliosa quanto rappresentativa della tragicità delle
aspirazioni di libertà che avevano caratterizzato la recente storia
della Polonia,
è quella dell’assedio a Saragozza, in cui un plotone di soldati entra,
pieno di
coraggio e di intenzioni libertarie, nella città fortificata.
Saragozza,
tuttavia, si presenta deserta e silenziosa: l’unico suono che si sente
è quello
dei loro passi. Ad attenderli trovano soltanto un gruppo di strani
figuri,
probabilmente pazienti di una sorta di manicomio o impazziti a causa
dell’assedio, che danzano abbandonati a loro stessi nella città
svuotata.
Il film fu preso come un attacco ai valori polacchi, in particolare da
parte
dei Partyzanci,
seguaci di Mieczysław Moczar di cui si è già parlato nel capitolo
precedente,
che gli fecero cattiva pubblicità.
Il secondo film al festival di Cannes
del 1965 è Faraon
di Jerzy
Kawalerowicz, tratto dal romanzo di Bolesław Prus del
1897. Questa
pellicola mette in evidenza in modo particolare le dicotomie tra
giustizia ed
efficienza, tra nobiltà degli scopi e possibilità di raggiungerli e tra
potere politico
e religioso. Queste contrapposizioni sono incarnate dal protagonista
Ramses
XIII, giovane faraone e personaggio inventato, che si trova alle prese
con il
pragmatismo e la durezza della casta sacerdotale. Il soggetto si
collega in
qualche modo al conflitto tra stato e chiesa in atto nel periodo
contemporaneo
all’uscita del film.
In
Faraon grande
importanza viene data all’estetica e in particolare ai costumi: mentre
in
America registi di origine polacca come Joseph
Mankiewicz giravano film come Cesare e
Cleopatra, con un’infinità di mezzi e la missione di
restituire nel modo
più fedele e filologico possibile l’estetica dell’antico Egitto, in
Polonia
Kawalerowicz non può permetterselo. Con grande ingegno decide così di
creare
una propria estetica inventata, basata su toni luminosi di azzurro e
oro, con
l’aiuto delle scenografie di Jerzy
Skrzepiński e delle impareggiabili luci di Jerzy Wójcik, che
anni prima aveva diretto
la fotografia di Cenere
e diamanti di
Wajda.
Nel 1964 è la volta di Rękopis
znaleziony w Saragossie (In italiano: Il manoscritto trovato a
Saragozza) del
grande Wojciech Jerzy
Has,
dall’omonimo romanzo che Jan Potocki scrisse tra il 1794 e il 1815. Il
film è
uno spensierato ed esteticamente bellissimo adattamento
cinematografico: anche
qui i mezzi disponibili sono limitati e gli scenografi ricreano
l’ambientazione
spagnola in un parco vicino alla sede della casa di produzione a
Breslavia.
Il bianco e nero è nitido e
contrastato, le ambientazioni
sembrano quadri di Dalì, la musica di Krzysztof
Penderecki accentua il senso di surreale mistero creato
magistralmente
da Mieczysław Jahoda, già direttore della fotografia di due pellicole
alquanto
allucinate quali sono Zymowy
zmierzch (trad.
Crepuscolo invernale) e Pętla (trad. Il
cappio) di cui si è parlato precedentemente.
La narrazione de Il manoscritto
trovato a Saragozza si svolge a “scatole cinesi”, ogni
personaggio
racconta una storia all’interno della quale si trova un altro
personaggio che
racconta una storia, fino a raggiungere una tale molteplicità di
livelli
narrativi da perdere il filo. Il film ebbe molto successo anche
all’estero,
anche se vi venne per lo più proiettato in versioni “accorciate”. La
versione
originale dura ben 180 minuti. Pare che autori del calibro di Scorsese, Buñuel,
Von Trier
e Lynch
lo reputino uno dei migliori film del
cinema mondiale.
Il romanzo fu pubblicato prima in
francese e solo dopo una trentina
d’anni uscì un’edizione in polacco. Il suo autore, grande viaggiatore,
si
uccise sparandosi con una pallottola d’argento che aveva fatto
precedentemente
benedire.
Wojciech Jerzy Has nel 1968 adatta un
altro importante
romanzo scritto da Bolesław
Prus nel
1890. Si tratta di Lalka
(trad. Bambola).
Un ricco commerciante di Varsavia, Stanisław
Wokulski, si innamora di un’aristocratica impoverita di
nome Izabela.
Dopo alterne vicende, soltanto per motivi di interesse, lei acconsente
a
sposarlo a patto che lui abbandoni il commercio.
Egli si ritira dalla sua attività;
mentre si trova in
viaggio per Cracovia con la futura moglie, quest’ultima inizia a
parlare in
inglese con un viaggiatore che, apparentemente per caso, condivide lo
scompartimento con loro. In realtà si tratta del cugino di Izabela,
Starski, di
cui è innamorata. Convinta che il futuro marito non capisca l’inglese,
la
ragazza conversa liberamente con il cugino permettendo così a Wokulski
di
capire che al matrimonio non la spingono sentimenti onesti ma
l’interesse
economico. Wokulski è oramai rovinato e, disperato, tenta il suicidio.
Viene
tuttavia salvato da un ferroviere che egli aveva un tempo aiutato.
Scompare poi
alla vista di tutti i suoi conoscenti. Izabela non ha altra scelta che
chiudersi in convento.
Mentre il romanzo è incentrato
soprattutto sul talento del
protagonista, ostacolato nella sua arrampicata sociale da pregiudizi,
convenzioni e snobismo, il film di Has getta una luce diversa su di
lui, facendolo
risultare un gran sognatore con molte chimere, una della quali è
appunto
Izabela. Questo suo amore non corrisposto è la goccia che fa traboccare
il vaso
di un suo inevitabile conflitto con il suo stato sociale e con il mondo
generale. È frutto sì della situazione storica e politica del suo paese
ma
soprattutto del suo temperamento. La stessa attrice che interpreta la
protagonista, l’algida e irraggiungibile Beata Tyszkiewicz, in questi
anni
moglie di Wajda, rende ancora più chimerico il desiderio del
protagonista nei
suoi confronti.
Un altro romanzo preso in
considerazione per una
trasposizione, questa volta da Andrzej
Wajda,
è Przedwiośnie (trad.
Preannuncio della
primavera). Il regista comincia a lavorare alla
sceneggiatura per
l’adattamento del romanzo di Stefan
Żeromski
nel 1956, ma da allora per ben mezzo secolo nasceranno ben cinque
versioni
della sceneggiatura e si cambierà diverse volte il cast. Infatti,
nonostante la
vicenda sia ambientata nel periodo prebellico, la Commissione di
Valutazione
delle Sceneggiature la censura ripetutamente in quanto opera
spiccatamente anti
sovietica.
Naturalmente Andrzej Wajda aveva
anche intenzione di richiamare,
tramite questo film, la situazione politica contemporanea in Polonia;
dal canto
suo, quindi, più volte rifiutò di spingersi troppo lontano con i
compromessi
richiesti dalla censura. A volte, invece, fu costretto a sospendere il
progetto
perché occupato su altri fronti o perché gli attori che aveva in mente
non
erano disponibili. Alla fine il progetto non fu mai portato a termine,
ma Wajda
cercò sempre di riprenderlo in mano. Gettò la spugna solo quando fu
battuto il
primo ciak dell’adattamento cinematografico dello stesso romanzo da
parte di
Filip Bajon nel 2001.