Nel 1982 Coppola
girava Un
sogno lungo un giorno: era l’ultimo film, prima di Tetro, di cui
scrisse la sceneggiatura. Lo
produsse la American Zoetrope, studio cinematografico che lo stesso
Coppola
aveva fondato nel 1969 insieme a George Lucas. Investì molto in questo
progetto, soprattutto perché decise di utilizzare tutte le più
sofisticate e
allora moderne tecnologie per la rappresentazione dell’immagine.
L’immagine regna
sovrana nel cinema di Coppola: il nome
dello studio cinematografico proviene da zootropio, uno dei metodi più
antichi
che l’uomo ha inventato per animare le immagini. “Quello che si dice non è
importante: il
linguaggio è morto”, ci dice il regista tramite la voce di
Tetro, come a
sancire una volta per tutte questa supremazia.
Ma Un sogno lungo un giorno
costò 26 milioni di dollari e fu un tale disastro al botteghino che
fece quasi
fallire lo studio. In quello stesso periodo l’American Zoetrope stava
producendo il film Hammett,
di Wim
Wenders, la cui lavorazione durò più di 4 anni con varie interruzioni,
e non
fece che aumentare il vuoto nelle finanze dello studio.
Dopo questi
avvenimenti il famoso regista sostiene di aver
passato gli anni successivi a sfornare un film dopo l’altro per pagare
i
debiti, obbligato continuamente a sottostare alle imposizioni del
cinema
Hollywoodiano: niente dialoghi in lingua originale e sottotitoli e,
soprattutto, niente bianco e nero…
Durante una delle
interruzioni nella lavorazione di Hammett
Wenders girò Lo stato
delle cose: questo film, intriso di
riflessioni sul cinema, parla del rapporto fra il regista Friedrich
Munro e
Gordon, il produttore. Il regista vorrebbe essere libero di creare,
gira il
film in bianco e nero e si sta chiedendo quanto è importante la trama
in un
film. Il produttore, invece, sta scappando dai finanziatori-mafiosi che
vogliono ucciderlo perché non hanno apprezzato il film e, viste le
prime
sequenze, si sono chiesti cosa fosse successo al colore.
E’ dunque il
produttore che mette il regista davanti al
fatto che chi sovvenziona un progetto artistico ha comunque l’ultima
parola su
ogni decisione e che il mercato spesso conta di più dell’arte stessa:
ciò
ricalca con precisione i problemi che Wenders aveva sul set di Hammett. Buffo
pensare che chi frustrava la sua
creatività e anteponeva all’arte le esigenze di mercato, in questo
caso, fosse
proprio lo stesso Coppola!
Forse proprio
perché c’erano nell’aria queste riflessioni,
che sicuramente avranno coinvolto non poco il regista americano,
Coppola capì
che per uscire dai suoi problemi finanziari avrebbe dovuto adattare il
suo modo
di fare cinema alle esigenze del mercato: abolì il bianco e nero e
decise di
non scrivere più sceneggiature.
Il risultato di
questo piegarsi alle regole produsse
innumerevoli successi tra cui la trilogia de Il
Padrino e Dracula
di Bram Stocker,
che gli valsero non pochi premi e, soprattutto, estinsero i suoi debiti
e gli
permisero di decidere, a un certo punto, che i film che avrebbe fatto
da quel
momento in poi sarebbero stati solo suoi: li avrebbe prodotti da sé
senza
necessità di alcun compromesso. Non gli importava più del successo che
avrebbero avuto, e di quanto l’avrebbero reso ricco: avrebbe iniziato
da capo
una “seconda carriera”. Avrebbe di nuovo “imparato a fare cinema”, come
dice
lui stesso in alcune interviste.
Questa premessa era
d’obbligo per comprendere quanto Tetro
in realtà rappresenti lo stesso Coppola, che si ritrova ad essere
nuovamente un
artista all’inizio della carriera. Carriera che in qualche modo regista
e
personaggio rinnegano: Coppola in favore di un cinema più intimista e
Tetro in
favore della sua famiglia.
“Non guardare le luci”
dice Tetro a Bennie. Se si guardano le luci si rimane accecati, come la
falena
che vola intorno alla lampadina. Carlo Tetrocini è un uomo potente, “il
grande
uomo”: al suo funerale campeggia un suo enorme ritratto alla Quarto potere.
Guardando le luci dei riflettori
ha perso l’anima, come accade in Faust, (o Fausta...). Oramai è un
tutt’uno con
quella luce, così abbagliante che chi sta vicino a lui, che sia lo zio
Alfie
“zucchero d’orzo” o il figlio, sbiadisce e scompare.
Tetro non guarda le
luci. Gli hanno fatto male troppe volte:
era accecato dai fari quando ha perso il controllo dell’auto in cui è
morta sua
madre, e quando è stato investito dal pullman. Ma le luci che l’hanno
danneggiato di più sono quelle del successo che gli ha rubato l’affetto
del
padre. Non vuole diventare come lui, non vuole perdere l’anima e non
vuole che
suo fratello/figlio passi quello che ha passato lui.
Per questo fugge
dal suo stesso talento e sceglie di fare il
tecnico delle luci, rimanendo
sempre al sicuro
dietro di esse. Quasi come un vampiro sembra non riflettersi nemmeno
negli
specchi e sceglie l’ombra, come ci dice lo stesso nome con cui il
personaggio
si fa chiamare, e addirittura diventa ombra, in una bellissima scena in
cui,
proiettato sul muro, urla contro Bennie che ha appena svelato a Miranda
il suo
cognome.
Sembra quasi che il
destino voglia portarlo a seguire le
orme del suo genitore, che Carlo Tetrocini sia destinato a reincarnarsi
in
Tetro: la loro storia si ripete, quasi come un eterno ritorno
Borgesiano; il
talento di Carlo è presente anche in Tetro (nonostante il padre gli
dica che in
una famiglia può esserci un solo genio), e sia il figlio di Carlo che
quello di
Tetro perdono la madre e sono la causa più o meno diretta della sua
morte;
addirittura sia Tetro che Bennie vengono investiti e si rompono una
gamba, e
come Carlo seduce la fidanzata di Tetro, Tetro sembra affascinare Maria
Luisa
usando le stesse parole del genitore.
Ma Tetro lotta
contro questo destino: Bennie era arrivato con
uno scopo ben preciso. E’ scritto a caratteri cubitali sul muro nella
prima
sequenza in cui scende dal pullman: “No
sueltes la soga que me ata a tu alma”, non lasciare la
corda che mi lega
alla tua anima. L’ultimo estremo gesto che fa Tetro per cambiare la sua
storia
è rispondere a questa richiesta di aiuto.
Kate, in Lo stato delle cose,
diceva a sua figlia che la natura è un chiaroscuro, e per
rappresentarla
bisogna accostare le zone chiare a quelle scure, altrimenti non è
niente: luci
e ombre. Due sono i colori, in Segreti
di
Famiglia: il bianco e il nero, perché non ne esistono
altri per
descrivere una realtà fatta di luci e ombra.
La finzione,
invece, viene rappresentata a colori surreali e
saturi. Gli spezzoni teatrali che fanno rivivere le memorie di Tetro
sono vere
e proprie opere d’arte, l’immagine è sempre esteticamente perfetta.
Ricorda i
balletti di Pina Bausch in Parla
con Lei
o, per la dimensione onirica, molte immagini nei film di David Lynch.
E’ Fassbinderiana
la sequenza al festival di Patagonia in
cui l’azione si svolge con l’ingombrante sottofondo audio e video della
rappresentazione della vita del protagonista, in una continua
sovrapposizione
fra realtà e finzione.
E’ bellissima
Coppelia, smontata, divisa e contesa:
rappresenta qualcosa che gli uomini bramano, per cui sono disposti a
tutto,
senza accorgersi che non è altro che un automa: qualcosa di sterile e
inanimato.
Forse Coppola, come Coppelius creatore e adoratore di questo automa, lo vede come ulteriore
metafora di quanto
sono sterili e privi di anima la fama e il successo…
Ad ogni modo il
regista su questo argomento non mette in
guardia solo se stesso, ma ammonisce anche noi: non a caso il film
termina con
una forte luce che acceca lo spettatore.
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