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Happy family: Da Allen alla commedia all’italiana

Dove finisce la realtà e inizia la finzione? Quanto c’è di autobiografico in una storia? E’ la realtà che ispira la finzione, o la finzione finisce per cambiare la realtà? Esiste un posto dove vanno a finire i personaggi, quando la storia finisce? Non sto parlando de La rosa purpurea del Cairo, con i suoi personaggi incastrati in una scena, né di Harry a pezzi, ma di Happy family, l’ultimo film di Gabriele Salvatores.

 

Se in Nirvana erano presenti un po’ di atmosfere psichedeliche alla Blade runners e in Denti si evocava Cronenberg con la sua metamorfosi della carne, se in Io non ho paura esiste un’accademica citazione di La morte corre sul fiume, a mio parere in Happy family si trovano spesso e volentieri, tra gli altri, riferimenti visivi, tematici e formali alla poetica di Woody Allen.

 

Per iniziare da quelli puramente visivi me ne vengono in mente alcuni abbastanza evidenti: la scena in cui Ezio e Caterina si trovano a parlare sulla terrazza della casa di Caterina sembra una palese citazione di Io e Annie mentre è impossibile non vedere attinenze tra la celebrazione in  bianco e nero della skyline di Milano con luci notturne e sottofondo musicale e quella di Manhattan in Manhattan… è anche difficile non pensare al regista americano durante la sequenza in cui Caterina è dallo psicanalista, con tanto di siparietto-flash back ironico e retrò, anch’esso in bianco e nero.

 

Per quanto riguarda i contenuti la “crisi creativa” di chi deve inventare una storia è presente in molti film del regista americano, ed è Alleniana anche la continua dialettica tra cosa piacerebbe scrivere e cosa invece si è costretti a scrivere per vivere, o per sfondare nel mondo artistico (basti pensare a Io e Annie o a Pallottole su Broadway).

 

Forti attinenze sono anche presenti nel linguaggio cinematografico: i personaggi si presentano interpellando lo spettatore direttamente e il ritmo della narrazione è dato quasi esclusivamente dai dialoghi in cui si susseguono battute che a volte scadono nel demenziale. Ma l’elemento che più di qualunque altro rende davvero simili le atmosfere dei due registi è il fatto che ogni inquadratura del film è volta a esaltare una città che diventa a tutti gli effetti un vero e proprio personaggio, e nemmeno tanto secondario, all’interno del film.

 

Ma d’altra parte a quale miglior modello poteva ispirarsi il regista italiano per una commedia, se non a un regista che di questo genere ne mastica più di chiunque altro?

 

Nel complesso, però, bisogna dire che esiste una sostanziale differenza per cui Happy family si discosta nettamente dal genere Alleniano: è comunque una commedia divertente e leggera senza alcun retrogusto amaro o crudele, e come tale non si ferma tanto a pensare.

I temi del dualismo realtà/finzione e autore/personaggio, della crisi creativa, di quanto deve scendere a compromessi un autore quando crea vengono accennati ma non sviluppati e non si può dire che il film faccia una vera e propria riflessione filosofica su di essi.

 

Ezio, il personaggio-autore, non vive la mancanza di ispirazione in modo tragico e non pretende da se stesso la purezza di cui i personaggi-autori di Allen non possono fare a meno. Sarebbe propenso a un “non finale”, ma spinto dai personaggi e dal volere del pubblico finisce per abbandonarsi al classico happy ending senza troppi rimorsi. E dato che l’autore nella finzione è l’alter ego del vero regista, direi che anche quest’ultimo, in un certo senso, asseconda questa esigenza quasi compiaciuto come fosse un’attenuante a una scelta un po’ banale per risolvere un finale.

 

Dunque, Salvatores è proprio tornato alla commedia  all’italiana, la stessa di cui nel 2005, mentre girava Nirvana, aveva fermamente decretato la morte.

Il film si basa sull’omonimo spettacolo di Alessandro Genovesi messo in scena dalla compagnia del Teatro dell’Elfo di Milano, fondato dallo stesso Salvatores.

L’origine teatrale risulta evidente nel film sia nei dialoghi, sia nelle ambientazioni volutamente “finte” che a volte sembrano bellissimi fondali. Ma forse non è altrettanto convincente la trasposizione cinematografica di alcuni personaggi un po’ sopra le righe: ad esempio Corinna Augustoni, che interpreta la mamma di Vincenzo e che ricopre lo stesso ruolo nello spettacolo teatrale, pesantemente truccata per sembrare più vecchia perde un po’ della sua espressività.

 

Ma non dimentichiamo che Happy family, a prescindere da riferimenti ed origini, è prima di tutto una tipica commedia corale “alla Salvatores”:

 

Non manca infatti il tema ricorrente dell’amicizia tra uomini, quello di Turné, Mediterraneo e Marrakech Express, che se vogliamo si ritrova anche nel rapporto padre-figlio di Come Dio comanda e forse, in embrione, addirittura tra bambini di Io non ho paura.

Un’amicizia preziosa, speciale, soprattutto quando unisce persone con caratteri e esperienze diverse, un sentimento al di sopra di tutto che va oltre l’amore per una donna e oltre la morte stessa.

 

In questo film, che inizia e si sviluppa in una Milano inedita per poi finire in una lussuosa stanza di una clinica con vista sullo scintillante stretto di Panama, non manca neanche il concetto di mare come fuga per ritrovare se stessi. Anche se in questo caso il concetto sembra acquisire una nuova valenza: non si tratta più di una fuga di qualcuno che “non sa cosa fare da grande” pur essendo già “grande”, ma dell’ultimo anelito di vita e di libertà di un uomo la cui esistenza sta arrivando alla fine.

 

Resta la cura per la musica, che va dal notturno di Chopin a Simon e Garfunkel, e le inquadrature perfette: Italo Petriccione, storico direttore della fotografia che da sempre lavora con Salvatores, sa trovare la stessa bellezza in un’isola deserta in Grecia, in un paesino Messicano sul Pacifico, in un campo di grano in Basilicata o nei quartieri di Milano. Si aggiungono anche immagini dai colori volutamente iperrealistici che ci ribadiscono continuamente che ciò che guardiamo è finzione e che questa finzione, forse proprio in quanto tale, è un piacere per gli occhi.

 

In un’era in cui il cinema diventa sempre più autoreferenziale Salvatores non è da meno citando se stesso apertamente quando il personaggio di Abatantuono chiede a quello di Bentivoglio se per caso non si siano conosciuti in Marocco…. Ma la vera e storica autoreferenzialità di Salvatores si incarna negli stessi personaggi e nei loro relativi interpreti: sono facce oramai talmente note e inscindibili una dall’altra che quando inizia il film sembra quasi di tornare a casa e di far parte dell’Happy family.