|
IL CINEAMATORE il sito del Cinema Zuta
|
|
41°
edizione del Festival del
cinema di Gdynia del 2016
|
Settembre a Gdynia secondo la nostra esperienza è mite e caratterizzato
da giornate ventilate, tiepide e limpidissime. Il mare è calmo e viene voglia
di buttarcisi dentro. Quest’anno, invece, il tempo era variabile e capriccioso,
quasi come premonizione di quanto sarebbe accaduto da lì a un paio di settimane:
il 9 ottobre, infatti, il cinema perde uno dei suoi maggiori esponenti: Andrzej
Wajda. Il regista, che aveva compiuto 90 anni quest’anno in primavera, ci ha
onorato della sua presenza nel quarto giorno del festival con una serata ad
inviti seguita da un rinfresco. In tale occasione ha presentato Powidoki, il suo ultimo film, non in concorso. Il
ricordo di questo Festival, quindi, col senno del poi è guastato da
questo triste evento.
Per il resto, il Festival
del cinema di Gdynia ha regalato
il suo premio alla carriera ad un altro regista che ha fatto la storia del
cinema polacco, Janusz Majewski. Già l’anno scorso era presente a Gdynia con il
suo ultimo film, leggero e musicale, Excentrycy,
czyli po słonecznej stronie ulicy (in italiano: Eccentrici, ovvero dalla
parte soleggiata della strada) e per la proiezione nella sezione “Classico puro”
del suo Lekcja martwego języka (in
italiano: lezione di una lingua morta) del 1979. Quest’anno ha avuto luogo la
proiezione speciale del suo bellissimo film Zazdrość
i medycyna (in italiano: Gelosia e medicina) del 1973.
Tra le proiezioni speciali al Centro Cinematografico di Gdynia,
spiccano Pokolenie di Janusz Zaorski, un bel
collage di tutti i più famosi film prodotti dagli studi cinematografici di
Breslavia, e il documentario di Andrzej Wajda Wróblewski
według Wajdy (in italiano: Wróblewski secondo Wajda). Quest’ultimo
ritrae la vita del pittore che più ha influenzato l’attività artistica di Wajda
a partire dagli ’40, personaggio su cui il regista per vari motivi non è
riuscito a girare un film di finzione, ripiegando sulla figura di Władysław Strzemiński che
poi ha dato vita a Powidoki.
Questa edizione del festival sembra aver rivolto la sua
attenzione al mondo della pittura: Oltre Powidoki
e Wróblewski według Wajdy esce sugli
schermi la pellicola Ostatnia Rodzina,
attesissima, la cui proiezione al Teatr Muzyczny per gli accreditati è stata
ripetuta una seconda volta a causa del troppo afflusso di pubblico. Ostatnia Rodzina è stato girato dal
giovanissimo Jan P. Matuszynski al suo debutto nel cinema di finzione. Nel cast
spicca il grande Andrzej Seweryn e il bravissimo Dawid Ogrodnik, pluripremiato
per il suo ruolo in Chce się żyć del
2013, uscito in Italia col titolo Io sono Matteo.
Il film vince diversi premi ma è comunque battuto da Zjednoczone stany miłości di Tomasz Wasilewski, vincitore dell'Orso d'Argento a Berlino per la sceneggiatura, meritato o meno che sia.
Non manca una parziale retrospettiva su Andrzej Żuławski,
altra perdita incolmabile per il cinema mondiale,
nell’ambito della quale viene proiettato il suo meraviglioso film Kosmos, dall’omonimo romanzo di Witold
Gombrowicz, testamento del regista terminato poco prima di morire. La sera al
cinema all’aperto sulle sdraio del Centro Cinematografico è stato possibile
gustarsi la versione restaurata di tutto il Decalogo
di Kieślowski, due episodi a sera. Si contano poi alcuni film per la sezione “Tesori
del cinema prebellico” e viene dato come sempre molto spazio al cinema giovane
e al cinema indipendente con le sezioni “Altro sguardo” e “Concorso cinema giovane”.
In concorso da segnalare senza dubbio sono Zaćma (in italiano: Cataratta), del regista
Ryszard Bugajski, e il bellissimo e finalmente maturo Wołyń di Wojciech Smarzowski: anche quest’ultimo,
nella proiezione ufficiale al Teatr Muzyczny, ha lasciato fuori vari spettatori
infuriati e ha reso necessaria una proiezione supplementare.
I
premi ufficiali dell'anno 2016
|
Premio |
Film vincitore
ufficiale |
Artista |
Leone
d’oro |
Ostatnia
Rodzina |
Jan
P. Matuszyński |
Leone
d’argento |
Jestem
mordercą |
Maciej
Pieprzyca |
Premio
speciale della giuria |
Czerwony
pająk |
Marcin
Koszałka |
Regia |
Zjednoczone
stany miłości |
Tomasz
Wasilewski |
Sceneggiatura
|
Jestem
mordercą |
Maciej
Pieprzyca |
Fotografia |
Wołyń |
Piotr Sobociński |
Scenografia |
Szczęście
świata |
Tomasz
Bartczak, Andrzej Kowalczyk |
Costumi |
Zjednoczone
stany miłości |
Monika
Kaleta |
Musica |
Szczęście
świata |
Motion
Trio |
Suono |
Na
granicy |
Kacper
Habisiak, Marcin Kasiński, Mateusz Adamczyk |
Montaggio |
Zjednoczone
stany miłości |
Beata
Walentowska |
Caratterizzazione |
Wołyń |
Ewa Drobiec |
Protagonista
femminile |
Ostatnia Rodzina |
Aleksandra Konieczna |
Protagonista
maschile |
Ostatnia Rodzina |
Andrzej Seweryn |
Ruolo
secondario femminile |
Zjednoczone stany miłości |
Dorota Kolak |
Ruolo
secondario maschile |
Zjednoczone stany miłości |
Łukasz Simlat |
Debutto
alla regia |
Plac Zabaw |
Bartosz M. Kowalski |
Attrice
debuttante |
Wołyń |
Michalina Łabacz |
|
22 settembre 2016 - Anteprima di Powidoki al
Festival di Gdynia
|
Terzo giorno del
festival di Gdynia ore 19.00 al Teatr
Muzyczny di Gdynia: la sala è gremita. Sta per cominciare la proiezione
speciale di Afterimages (Titolo
originale Powidoki),
l’ultimo film di Andrzej Wajda,
seguita da un brindisi per il suo novantesimo compleanno. Ed ecco che
sul palco
appare lui, in carne ed ossa, la storia del cinema polacco! Dal
realismo
socialista alla caduta del muro… fino ad arrivare agli anni in cui i
muri si
ricostruiscono.
Viene fatto
accomodare su un vero e proprio trono di velluto
rosso. È sorridente e sereno, e ha quelle sue mani lunghe e bianche che
spiccano in tante sue foto scattate sul set. Vicino a lui ci sono molti
dei
suoi attori: la prima che notiamo è Maja Komorowska, ormai anziana ma
bellissima, con un sorriso solare che non è per nulla diverso da quello
che
aveva in Le signorine di
Wilko.
E’ alta ed elegante, con i capelli raccolti… l’ultima volta che
l’abbiamo vista
era sul palco del Teatr Dramatyczny, nella sala Halina Mikołajska, che
si trova
in cima a una scala ripida ad un piano alto del Palazzo della Cultura a
Varsavia. Recitava in Giorni
felici di
Beckett, con la regia di Antoni Libera. I suoi capelli erano quindi
spettinati
e crespi, così come richiede il ruolo, ma non toglievano nulla alla sua
bellezza e intensità. Le danno un microfono ma non parla molto, la sua
voce è
un po’ tremolante, ma non perde la sua unicità.
Il più pazzoide è
Robert Więckiewicz, protagonista del film
precedente di Wajda Walesa,
l’uomo della speranza.
L’attore parla a scatti, velocissimo e fa un sacco di battute. Visto
dal vero
sembra molto carismatico, anche senza i baffoni di Walesa, e vedendolo
si
capisce quanto abbia fatto suo questo personaggio. Non può mancare
Andrzej
Seweryn, scelto da Wajda per molti film tra cui Terra
Promessa, L’uomo
di marmo, L’uomo
di ferro, e Senza
anestesia. Si trova qui per la
presentazione del suo ultimo film Ostatnia
Rodzina, diretto da Jan P. Matuszyński, uno dei film più
attesi del
festival di quest’anno insieme a Wołyń
di
Wojciech Smarzowski.
Tra il pubblico c’è
anche Andrzej Chyra ed è stilosissimo,
con i suoi occhiali rettangolari dalla montatura spessa e i capelli
corti
sembra molto più giovane di quanto non fosse l’anno scorso in 11 minut di Jerzy
Skolimowski o due anni fa
quando si trovava qui a Gdynia per il bellisimo fiml Obietnica. Lui con
Wajda ha girato Katyń.
Ospite d’onore,
ovviamente al secondo posto rispetto al
leggendario regista, è l’attore protagonista del film di stasera
Bogusław Linda.
E’ molto distinto e anche lui, come Więckiewicz, non è avaro di
battute. Chiede
persino scusa a Wajda del fatto di non essere Daniel Olbrychski. Wajda
scoppia
a ridere: Olbrychski, dopo la tragica morte di Zbigniew Cybulski, diventa
infatti il
suo attore feticcio: lo vediamo sprizzante di bellezza e giovinezza in
film
come Tutto in vendita,
Ceneri
sulla grande armata, Le signorine di Wilko e
Terra
promessa nel ruolo di protagonista.
Stasera è assente.
Andrzej Wajda
saluta e si complimenta con tutti gli attori,
in particolare con la più giovane del cast, Bronisława Zamachowska,
figlia
d’arte del mitico attore Zbigniew Zamachowski e che ricopre il ruolo di
coprotagonista al fianco di Bogusław Linda in Afterimages.
Film che, senza dubbio, si rivela assolutamente degno del suo autore,
che con
gli anni non ha minimamente perso la capacità pittorica di ritagliare e
comporre le inquadrature, aiutato dal geniale direttore della
fotografia Paweł
Edelman. Quest’ultimo è presente con gli altri sul palco e affianca il
Nostro già
dai tempi del Pan
Tadeusz (1999); è famoso
per aver diretto la fotografia de Il
Pianista
e di molti altri film di Roman Polański.
Bisogna dire che
Wajda non ha perso assolutamente la
sua capacità di dirigere gli attori in modo magistrale. Iniziamo dal
navigato Bogusław
Linda: incarna il
protagonista, il
pittore di avanguardia Władysław Strzemiński. Questi era stato
ferito
gravemente durante la prima guerra mondiale e Linda sembra aver avuto
un
braccio e una gamba soli per tutta la vita, tanto si muove in modo
disinvolto
nei suoi panni.
Sullo schermo
dimostra almeno dieci anni in più di quanto
non faccia dal vero, nonostante sembri quasi privo di trucco: insomma,
niente
rughe come quelle della santa di La
grande
bellezza e bando ai ceroni spessi un dito di Toni
Servillo. Tutto è
frutto della recitazione di Linda e della maestria registica di Wajda:
nonostante le sfortunate circostanze in cui si trova il personaggio e i suoi problemi fisici, il suo carisma è di tale impatto,
che quando
la sua bellissima e giovane studentessa gli confessa di essere
innamorata di
lui il pubblico non stenta a crederlo.
Ma la migliore
rivelazione è l’adorabile, giovanissima e
timida Bronisława Zamachowska, che sul grande schermo riesce ad
apparire così
risoluta da sembrare molto più matura dei suoi 14 anni, nonostante
abbia uno
sguardo così innocente, limpido e disarmante. Fra il pubblico
stringiamo la
mano a suo padre Zbigniew, altra leggenda del cinema polacco,
protagonista, per
fare un esempio, di Film
Bianco di Krzysztof
Kieślowski. Si trova al brindisi per mano con la sua nuova moglie
Monika, che
lui ci presenta subito, e che scopriamo essere una giornalista.
Bronisława Zamachowska interpreta la
figlia del protagonista. La ragazzina è l’unica persona che si occupa
di lui,
gli fa da mangiare e si preoccupa della sua salute e del fatto che fuma troppe
sigarette, ricevendo in cambio dal padre solo qualche commento burbero.
Per due
volte nel film è costretta a fare la valigia e trasferirsi: la prima
volta
accade quando muore la madre, e lei si trasferisce dal padre; la
seconda è
quando decide di lasciare l'appartamento in cui vive con suo padre per andare a vivere nell’orfanotrofio, affermando che là vivrà più comoda in quanto
l’istituto si
trova più vicino alla scuola. Forse la verità è che casa loro è sempre
piena di
gente e lei non riesce a studiare, oltre al fatto che è alquanto
infastidita
dalla presenza della giovane studentessa che va e viene troppo spesso e possiede persino una copia delle chiavi di casa.
Il film ritrae gli
ultimi anni della vita di Władysław
Strzemiński, quando il pittore, tra i fondatori dell’accademia e
amatissimo
dagli studenti, a causa del suo palese dissenso nei confronti del
regime
comunista si vede prima privato della possibilità di insegnare, e poi
espulso
da quest’ultima finendo in disgrazia per poi morire di tubercolosi.
Andrzej Wajda negli
anni ’40 aveva iniziato la sua carriera
come pittore, e fu proprio un pittore a fargli prendere la decisione di
abbandonare questa strada. Questi in realtà non era Strzemiński ma
Andrzej
Wróblewski, pittore figurativo attivo in Polonia negli anni ’40 e ’50.
Pare che
il Nostro, dopo aver visto la serie delle Fucilazioni
di quest’ultimo, abbia deciso di darsi al cinema.
La serie delle
fucilazioni ha in effetti un incredibile
impatto visivo che sembra aver influenzato lo stile visivo di Wajda in
alcune
scene dei suoi film, come se quest’ultimo volesse in qualche modo
riprodurle
sulla pellicola: gli esempi più famosi sono le morti disarticolate del
comunista sulla soglia della chiesa e di Maciek in Cenere e Diamanti, e
i colori e l’atmosfera
intorno ai cadaveri di Katyń:
in tutto
ricordano le vittime dei quadri di Wróblewski, contorte e innaturali
negli
istanti subito precedenti o subito successivi alla morte. Le tele
stesse del
pittore appaiono anche nel film Tutto
in vendita.
Tuttavia Wajda non
riesce a fare un film su Wróblewski. Su
di lui gira solo un documentario, proiettato a Gdynia quest’anno,
intitolato Wróblewski
według Wajdy (in italiano: Wróblewski
secondo Wajda). Forse, rimasto insoddisfatto il suo desiderio di girare
un film
su un pittore, ha deciso di dare vita ad Afterimages.
Il titolo si
riferisce allo stile che caratterizzò una
determinata fase dell’opera di Strzemiński, che affermava di dover
mettere
sulla tela non le immagini realistiche, ma le “immagini residuali” che
la mente
vede quando vive o ricorda. In una sua serie di opere, intitolata
appunto Powidoki (in
italiano: Immagini
residue), il pittore dipinge alcuni ritratti
come fossero visti da un occhio accecato dal sole.
Wajda fa anche
disegnare dei bellissimi titoli di coda con
una grafica coloratissima in stile Strzemiński, così come è bellissima
e
coloratissima la riproduzione della stanza degli artisti plastici. Il
film
merita davvero, anche se a mio parere la prerogativa di film di Wajda
più
geniale degli ultimi tempi va senza dubbio attribuita a Wałęsa, per la
velocità del montaggio, la
modernità della musica e per la “giovinezza” della regia in generale,
contrapposta
all’esperienza nel cinema di un regista che lavora da più di mezzo
secolo.
Dal suo “trono”
Wajda ha scherzato sul fatto che 90 anni non
sono tanti, e nemmeno 40 film. Lui si sente all’inizio della carriera e
ha
ancora molti film da fare. Posso solo dire che di questo siamo molto
contenti…
Infondo Manuel De Oliveira ha fatto l’ultimo film che aveva 104 anni!
|
Zaćma - Cecità e legge del
contrappasso
|
Protagonista del
film Zaćma (in italiano: Cataratta) di
Ryszard Bugajski è Julia Brystigerowa, personaggio storico realmente
esistito che
lavorava nei servizi di sicurezza durante lo stalinismo. Si era
impegnata con
particolare zelo nella lotta contro la chiesa e aveva fatto arrestare
diversi
leader religiosi. Era una convinta sostenitrice del motto marxista
secondo cui
la religione è l’oppio dei popoli e oltre a dirigere l’operazione per
l’arresto
del Cardinale Stefan Wyszyński aveva supervisionato l’arresto di ben
123 tra
preti e leader religiosi. L’avevano soprannominata Krwawa Luna, ovvero
Luna la
Sanguinaria.
Aveva persino
accusato il suo stesso collega Józef Różański
di crimini contro il socialismo per aver accettato dall’ambasciata del
governo
polacco in esilio un chilo di riso per salvare sua figlia dalla fame.
Lo stesso
Józef Różański fu il capro espiatorio su cui la Brystigerowa scaricò
successivamente tutte le colpe relative al trattamento disumano
riservato ai suoi
prigionieri: in questo modo, mentre in Polonia si cominciavano a
condannare i
crimini stalinisti e i loro perpetratori, era riuscita a farla franca.
Secondo alcune
testimonianze, la Brystigerowa aveva frequentato
a lungo un centro per non vedenti e si era poi convertita al
cristianesimo e fatta
battezzare poco prima di morire. Il regista sceglie dunque di ritrarre
proprio
questo momento della vita del personaggio, cercando di indovinarne le
motivazioni e le dinamiche di cambiamento.
In una delle prime
sequenze una donna, Julia Brystigerowa,
arriva nel distretto di Laski vicino a Varsavia, al Centro Educativo
per
bambini non vedenti, perché vuole avere un colloquio con il Cardinale Stefan
Wyszyński
che in quei giorni si trova lì.
Distinta, truccata
e pettinata di fresco, ma con una pistola
nella borsetta e lo sguardo severo, la donna si è presentata col suo
nome da
nubile, forse proprio per non attirare troppo l’attenzione di persone
che non
potrebbero che odiarla o come minimo giudicarla un’aguzzina:
probabilmente si
sente un pesce fuor d’acqua in quell’ambiente, ma non lo dà a vedere.
Fuori è una
giornata soleggiata e luminosa, e quando la
donna entra nell’edificio rimane accecata dall’oscurità per contrasto:
nel
centro stanno cercando di risparmiare elettricità per sfruttare il più
possibile i fondi disponibili allo scopo di aiutare i bambini non
vedenti.
Va a sbattere così
contro lo stipite della porta attraverso
cui Suor Benedetta la sta accompagnando alla cappella dell’edificio,
dove Julia
si accende subito una sigaretta. Inizia dopo qualche minuto una
conversazione con
padre Cieciorka. Questi è cieco, ha una brutta cicatrice sull’occhio e
non
sopporta l’odore del fumo. Per una strana simmetria anche Julia ha, a
causa del
colpo contro lo stipite, un segno su un sopracciglio e ha difficoltà a
vedere nella
penombra della cappella.
Per buona parte del
film la protagonista aspetta che il
Cardinale le dia udienza, ma questo momento viene continuamente
rimandato ed è
costretta a pernottare nel centro. In quest’occasione incontra diversi
personaggi e difficoltà che la portano a ragionare su se stessa e a
rivivere
con forti sensi di colpa il suo passato sanguinario. Questi elementi
sembrano
quasi forzati da uno strano destino ed acquisiscono una valenza di
prove da
superare al fine di essere psicologicamente pronta e consapevole di sé
quando
finalmente potrà avere il suo colloquio. Allo spettatore viene il
dubbio che
siano addirittura gli stessi abitanti del centro a sottoporla
intenzionalmente
a queste prove.
In uno di questi
episodi la protagonista va al bar a
mangiare qualcosa e viene fermata dalla polizia che la perquisisce in
modo psicologicamente
violento e fisicamente ambiguo, ma allo stesso tempo con fare
innaturale, quasi
forzato: i poliziotti sembrano mettere in scena la perquisizione
appositamente per
attuare una sorta di legge del contrappasso.
I momenti in cui i
sensi di colpa prendono il sopravvento
sono simbolicamente rappresentati con sequenze quasi oniriche in cui
Julia si
ritrova ai tempi in cui era in servizio in una cella con uno dei suoi
prigionieri che sosteneva di chiamarsi Gesù Cristo. Il prigioniero
viene
rappresentato dal regista in una luce mistica, proprio come se gli
occhi
dell’aguzzina lo vedessero come un vero Gesù Cristo. Lo stesso
prigioniero, in
un altro flashback della protagonista, viene chiamato a testimoniare
contro di
lei dopo la caduta dello stalinismo: non la riconoscerà come sua
torturatrice
perché troppo malconcio, permettendole così di farla franca.
L’attrice, Maria
Mamona, è la moglie del regista. Secondo
quanto ha raccontato quest’ultimo alla conferenza stampa, in famiglia
hanno
iniziato a parlare di questo film già da prima di girare Circuito chiuso.
“Maria ha iniziato quindi a calarsi nel personaggio fin da allora”,
dice
scherzosamente il regista, “e in questo modo io ho dovuto fare
colazione con Krwawa
Luna tutte le mattine da cinque anni a questa parte”.
L’attrice che
interpreta Suor Benedetta, invece, è nella
vita reale una delle migliori amiche di Maria Mamona e afferma di
essersi alquanto
preoccupata di non riuscire a trasmettere al pubblico la differenza e
il
distacco tra le due donne. Forse anche grazie all’amicizia reale tra le
attrici,
il rapporto tra i due personaggi, tuttavia, risulta molto ambiguo e
interessante. Si scopre in fatti che i due personaggi, per quanto
diversi e
distaccati, avevano in realtà un passato in comune: si conoscevano dai
tempi
dell’università, erano entrambe ebree cresciute nello stesso ambiente,
con
simili esperienze e tipo di formazione.
Esiste un altro
film del 1982 in cui si affronta in modo incredibilmente
vivido il tema della tortura e della violenza di un regime totalitario.
Questo
film, che si intitola Interrogatorio,
è
dello stesso Bugajski e analizza questa realtà dal punto di vista della
vittima.
La violenza delle
immagini risulta sicuramente più forte e
realistica in questo suo precedente film, mentre è più metaforica nelle
scene
ovattate e oniriche dei flashback di Zaćma.
Maria Mamona, seppur bravissima, non può in alcun modo essere
paragonata alla
Krystyna Janda di Interrogatorio,
anche
solo per il contesto in cui quest’ultima ha recitato, clandestinamente
e
proprio durante la dichiarazione dello stato di guerra in Polonia, in
una
situazione che sicuramente avrà contribuito non poco alla creazione del
suo
personaggio.
Ma Bugajski non si
fa intimidire dalla sua precedente opera
degli anni ’80 e dal peso del valore ad essa attribuito. È
probabilmente più
facile analizzare le ragioni di una vittima, piuttosto che quelle di un
carnefice che si pente delle proprie azioni, ma il regista affronta con
simile profondità
psicologica le due pellicole. E non solo, con gran classe non si limita
a scambiare
punti di vista di vittime e carnefici…
In Interrogatorio,
infatti, Janus Gajos incarna il terribile Major Zawada „Kąpielowy”,
chiamato così perché torturava le sue vittime legandole sotto un getto
di acqua
gelata per notti intere. In Circuito
chiuso,
invece, lo stesso Gajos è l’antagonista ”cattivo” che rovina la vita a un
gruppo
di intraprendenti bravi ragazzi. In Zaćma,
invece, Gajos dà vita al personaggio di padre Cieciorka, vittima che ha
perso
la vista a causa delle passate torture ordinate da Julia Brystigerowa:
il volto
del carnefice dei film precedenti diventa dunque quello sfigurato della
vittima
dell’ultimo in un interessante ribaltamento di ruoli. Di nuovo la legge
del
contrappasso?
|
Wołyń
|
|
Regia:
Wojciech Smarzowski |
La Volinia è una regione storica di confine tra Ucraina e
Polonia, uno degli insediamenti slavi più antichi d’Europa ora appartenente
all’Ucraina. Ai tempi dell’occupazione tedesca e delle leggi razziali, in
quest’area vi fu un vero e proprio massacro da parte dell’esercito
insurrezionale ucraino (UPA) nei confronti dei polacchi. In tale triste
occasione la maggior parte delle vittime furono donne e bambini e i metodi
dell’UPA furono particolarmente cruenti. Morirono in quest’area dalle 35.000
alle 60.000 persone, sommate alle 25-40.000 che ebbero lo stesso destino nella
Galizia orientale.
Le morti erano direttamente collegate alle politiche di
Stefan Bandera, attivista a capo del movimento nazionalista ucraino. In onore
di quest’ultimo nel 2007, quindi in tempi recentissimi, è stata collocata una
statua a Lviv: quest’azione ha scatenato non poche polemiche. La statua si
trova a poche decine di metri dal luogo in cui, il 19 novembre del 1942, fu
ucciso Bruno Schulz per mano del nazista tedesco Felix Landau. Lo scopo dei
Banderisti era quello di purificare la razza per la futura creazione dello
stato ucraino, e la messa in atto di questo obiettivo si tradusse in una vera e
propria strage della minoranza polacca presente nell’area e nel tentativo di
cancellare di ogni traccia di essa. Spesso la stessa chiesa ortodossa
supportava le azioni dell’UPA.
La situazione storica in cui si colloca questo film è
piuttosto simile a quella di Róża, film
del 2011 che, come Wołyń, è stato diretto
da Wojciech Smarzowski. Róża è
ambientato dopo la fine della seconda guerra mondiale nella Masuria, ex zona di
confine tra Prussia e Polonia, annessa alla Polonia proprio in occasione della
spartizione dopo la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso si scatenò
una vera e propria guerra civile in cui le popolazioni masure si trovarono a
subire ogni sorta di violenze da parte dei polacchi, i quali consideravano
queste comunità come tedesche perché non parlavano bene la lingua locale e per
la loro fede luterana.
Ma le analogie tra queste due pellicole a mio parere finisce
qui. Róża è girato in uno stile
realistico, con luce scarna da telefilm poliziesco italiano e recitazione
piuttosto inespressiva; le scene di violenza sono, come in Wołyń, impietose e cruente, ma hanno un che di ostentato,
gratuito e grottesco. Il film, nonostante il successo che lo ha contraddistinto
e gli innumerevoli premi che ha vinto, resta a mio parere un’opera immatura, in
cui si scorge troppo chiaramente la volontà del regista di sconvolgere chi
guarda, un po’ come nei suoi film “goliardici” precedenti e successivi
sull’alcolismo.
Wołyń, al contrario, è un film molto
patinato, con luci a tratti mistiche, scene dal carattere onirico e allucinato
accompagnate da una colonna sonora fatta di suoni angoscianti che ricordano Szyfry (in italiano: Codici cifrati), Il manoscritto trovato a Saragozza o Il sanatorio all’insegna della Clessidra di Wojciech
Jerzy Has.
Non è la prima volta che Wojciech
Smarzowski ci ricorda Wojciech Jerzy Has. Probabilmente, se qualcuno
glielo chiedesse, il regista di Wołyń
negherebbe ogni collegamento, considerato il modo scontroso e provocatorio con
cui risponde alle domande. Tuttavia, lo stesso Pod
Mocnym Aniołem sembra citare di continuo Pętla
(in italiano: Il cappio), con le sue scene ripetute in cui predomina il moto
circolare, dove l’inizio è uguale alla fine e questo non lascia troppo da
sperare.
Gli attori, Smarzowski sembra portarseli dietro, un po’ come
il nostro Salvatores, anche se qui la giovane e bellissima protagonista è
incarnata dalla ventiquattrenne Michalina Łabacz alla sua prima apparizione sul
grande schermo. Per questo film ha vinto a Gdynia il meritato premio per la
miglior attrice debuttante. La fotografia, perfetta e patinata, è di Piotr
Sobociński junior, degno figlio del Piotr Sobociński che ha diretto gli episodi
III e IX del Decalogo, Film Rosso di Krzysztof Kieślowski e La stanza di Marvin. Non a caso Wołyń
ha vinto a Gdynia il premio per la
miglior fotografia, mentre il suono, pervaso da note basse e vibranti, espande
all’ennesima potenza il tono allucinato del film e avrebbe forse meritato
qualche riconoscimento.
Sullo sfondo della tragedia si snoda una storia d’amore
impossibile e l’interminabile inferno di una famiglia costretta a vivere
continuamente nel terrore e che viene giorno dopo giorno decimata dalla spirale
di violenza che travolge la sua vita.
Il film inizia con un matrimonio tra un ragazzo ucraino e
una ragazza polacca, in cui sono rappresentate alcune usanze e giochi
caratteristici della cultura di quel tempo e di quel luogo: giochi che già di
per sé sono violenti e anticipano in qualche modo la tragedia imminente: la
sposina, per seguire la tradizione, poggia la testa sui gradini della sua
futura casa e con l’accetta le viene tranciata simbolicamente la sua spessa
treccia di capelli neri. Durante gli scontri successivi, la stessa ragazza
verrà decapitata con un’accetta sulla soglia di casa sua subito dopo aver
assistito all’uccisione del suo bambino.
La protagonista, Zosia, partecipa a questa festa di
matrimonio e riesce anche a sedersi per prima sulla sedia della sposa,
tradizione che, come per il nostro lancio del bouquet, la indica come prossima
ragazza che si sposerà. Sogna di sposarsi con Petro, bellissimo ragazzo della
sua età. Ma i piani di suo padre sono diversi: viene data in sposa a un uomo
molto più vecchio di lei, Maciej, e si trova a doverne crescere i figli, Franek,
un bambino di una decina d’anni, e Marysia, che ha quasi l’età di Zosia.
Iniziano i massacri. Zosia, incinta del marito, o più
probabilmente di Petro, viene fatta salire su un treno con tutta la famiglia
per essere deportata. Petro salverà lei e i figli di Maciej, e a causa di
questo perderà la vita. Zosia si troverà da sola a partorire, e poi dovrà
difendere se stessa, i ragazzi e suo figlio appena nato, Jasiek, fino al
ritorno del marito. Sarà presto costretta a sopportare la vista della testa di
Maciej recapitatale dal postino per un regolamento di conti con un vicino che
rubava loro le galline, dovrà assistere alla morte di Franek, che verrà
bruciato vivo, dovrà vedere la sua casa bruciare e fuggire con il suo bambino
in braccio senza portarsi null’altro che i vestiti che ha addosso. Patirà la fame,
dovrà camminare in mezzo a centinaia di cadaveri, dovrà dimostrare di essere
polacca e fingere di essere ucraina a seconda della situazione e vedere morire,
oltre alla sua famiglia, tutti i suoi conoscenti.
Il piccolo Jasiek, dal canto suo, sembra quasi un essere
sovrannaturale. Deciso e risoluto, per quanto piccolo, a volte sembra essere
lui a guidare la madre in quel labirinto di orrore, capisce per istinto quando
deve parlare in ucraino per sopravvivere e, quando la madre è esausta e si sta
lasciando morire nel bosco, decide di allontanarsi e farsi vedere sulla strada
affinché uno sconosciuto li salvi (forse?) portandoli via su di un carretto.
L’originalità del film sta nel linguaggio utilizzato dal
regista: pur trattandosi di una storia ambientata in un momento storico
preciso, si allontana alquanto dall’estetica documentaristica di Róża. Smarzowski preferisce girare il film come fosse un vero
e proprio horror. Si assiste quindi a ogni genere di orrore: si vedono i
ribelli ucraini spellare vive le loro vittime, si vedono correre bambini
avvolti da fascine di grano secco in fiamme e donne incinte pugnalate a morte.
Sembra quasi di assistere alla proiezione di un Inglorious
Basterds di Tarantino privato del lato ironico della situazione.
La sequenza più bella è forse un montaggio alternato veloce,
simile ad alcune sequenze di Pod Mocnym Aniołem,
in cui viene ripreso Bandera nel bosco che, con grande carisma, istiga i suoi
uomini alla strage. Come intermezzi, si inseriscono scene in cui alcuni
esponenti delle diverse chiese, ortodossa e cattolica, predicano la pace,
mentre altri, al contrario, istigano alla violenza.
|
Zjednoczone stany miłości
|
Zjednoczone stany miłości
ha vinto nel 2016 l’orso d’argento per la miglior sceneggiatura al festival di
Berlino. La Berlinale è sempre una garanzia, e ha spesso un debole per i film
polacchi, bisogna dirlo. Solo negli ultimi anni Małgorzata Szumowska si è
portata via nel 2013 il Teddy Award e nel 2015 l’orso d’argento per Body/Ciało.
Tuttavia in questo caso questo premio lascia interdetti.
Prima di tutto, è proprio la sceneggiatura che a tratti sembra mancare di
qualcosa: nella prima sequenza i personaggi sono tutti riuniti nella stessa
stanza, a tavola. La scena è ripresa a livello del tavolo in un’inquadratura strettissima,
quasi claustrofobica, piuttosto atipica e allo stesso tempo alquanto riuscita.
Si sente alla radio la notizia della caduta del muro di Berlino.
Nelle sequenze successive vengono ritratte le vite di
quattro donne alle prese con l’amore. Ma finché non si arriva alla terza
storia, quella di Renata, non si capisce bene se si tratti di flashback o di
avvenimenti avvenuti dopo l’annuncio alla radio.
In molte recensioni il film viene descritto come la storia
di quattro donne che devono cavarsela nella difficile realtà in evoluzione dopo
la caduta del muro. In realtà la prima, Agata, si innamora di un prete molto
più giovane di lei pur essendo sposata, la seconda, Iza, è l’amante trascurata di un dottore appena
rimasto vedovo che non è pronto a impegnarsi con lei mentre la quarta, Marzena,
è una ragazza che ha il marito lontano e conduce una vita piuttosto dissoluta
cercando di sfondare come fotomodella.
Difficile dire quanto l’evento storico alla base del film
influisca in tutto questo, in realtà sembra non farlo affatto. L’unica cui è
davvero cambiata la vita è la più anziana delle quattro, Renata, che è
un’insegnante di letteratura russa che viene licenziata per essere sostituita
da una di inglese. È appunto quando si assiste al suo licenziamento che si
capisce che probabilmente la sequenza iniziale a tavola avviene,
cronologicamente parlando, prima di tutte le altre. E il fatto che tutte e
quattro le donne si trovino a tavola insieme all’inizio ma nel resto del film sembrino
non conoscersi affatto, non fa che confondere ulteriormente le idee.
Insomma, uno dei punti deboli di questo film è proprio, a
mio parere, la sceneggiatura. Non che la trama debba per forza avere
un’importanza fondamentale, ma se la trama c’è, deve pur in qualche modo stare
in piedi, o, nel caso in cui lasci dei dubbi, anche queste lacune devono avere
un senso, devono essere in armonia con il film.
Certo, gli attori sono bravissimi, e non hanno vita facile
in un film così scarno: le luci sono impietose, il colore predominante è un
bianco-grigiastro che rende lo squallore delle vite dei personaggi ancora più
evidente. La musica è quasi assente, non c’è nessun panorama che non sia triste
e desolato, e quasi tutto è girato in interni. Il film si regge solo su lunghe,
interminabili riprese dei personaggi e delle loro azioni, ed è quindi
fondamentale che gli attori siano abbastanza espressivi da comunicare qualcosa
a chi guarda.
Non mancano nudi scabrosi, come quelli delle signore anziane
che fanno Acqua Jim: nudi per lo più inutili nell’economia della storia e per
questo apparentemente buttati lì sullo schermo per sconvolgere un po’ lo
spettatore. Le riprese, volutamente, sono girate da punti di vista che non
donano per nulla né ai corpi né ai visi degli attori, che sembrano tutti molto
più brutti di quello che sono.
Tomasz Wasilewski inizia
la sua carriera come assistente alla regia della Szumowska in 33 scene di vita nel 2008, e si vede
che quest’ultima l’ha influenzato non poco: il gusto dello scabroso, il
tema ricorrente del sesso, l’affrontare argomenti scomodi per non dire
“scivolosi” senza prendere una posizione definita, la presenza immancabile di
scene forti, troppo esplicite e disturbanti… ma all’allievo, purtroppo, manca
la genialità registica della maestra.
Il primo film con Wasilewski
alla direzione è W sypialni (in italiano: In camera da letto), forse il suo
miglior film, almeno finora. In esso una donna trascurata e forse, non si sa,
tradita dal marito vaga per Varsavia senza un soldo, rubando cibo nei
supermercati e contattando uomini su internet cui promette prestazioni
sessuali, ma che poi addormenta con sonniferi allo scopo di poter passare la
notte sotto un tetto e lavarsi.
Il secondo film di Wasilewski
è Płynące wieżowce (in italiano: Grattacieli fluttuanti), su un
ragazzo fino a quel momento eterosessuale che si innamora di un coetaneo
omosessuale. La storia d’amore, piuttosto goffa e maldestra tra l’altro, viene
presto turbata dal fatto che i genitori del ragazzo non potrebbero mai capirla
e accettarla e dal fatto che il ragazzo in realtà è contemporaneamente
fidanzato con una ragazza. Il primo a non accettare la propria storia, a dir la
verità, sembra proprio lui stesso.
Nell’ambiente circostante
regna l’omofobia, ma nulla farebbe pensare al fatto che questo possa causare
una tragedia... invece il film, senza il minimo preavviso, termina con una
sequenza in cui il ragazzo esce di casa e viene ucciso da alcuni teppisti
omofobici, lasciando lo spettatore per lo meno interdetto e non chiarendo
affatto quale sia il vero messaggio che il regista avrebbe voluto dare.
In Zjednoczone stany miłości c’è un po’ lo stesso problema: di cosa parla il film? Della
mancanza di punti di riferimento delle quattro protagoniste? Perché il regista
ambienta le vicende sin da subito in un momento storico così preciso, tramite
una scena che sembra ideata apposta per dirci quale sia questo momento... per
poi raccontarci storie che potrebbero essere accadute ovunque e in qualunque
momento e non per forza in Polonia tra gli anni ’80 e ’90? Il messaggio è:
“guarda che danni ha fatto il comunismo”? Oppure: “si stava meglio quando c’era
il comunismo”? O forse vuole farci pensare che sia rimasto tutto uguale?
Insomma, il film nella prima sequenza, che è poi la più
bella del film, promette benissimo, ma alla fine non mantiene. Ma, come ho già
detto, di solito la Berlinale è una garanzia, quindi è possibile che Wasilewski
diventi in futuro un grande regista e che sia stata io a non vederne le
potenzialità.
|
Marta
Cardinale
e Francesco Prestia © 2016
|
|
|