Anche
quest’anno, come spesso
accade a Berlino, la Polonia viene valorizzata più che mai regalando un
meritato Orso d’Argento a Pokot,
di
Agnieszka Holland. Il premio per l’esattezza si chiama Silver Bauer
Prize, e
viene assegnato ad autori le cui pellicole aprono nuove prospettive
nell’arte
cinematografica. Andrzej Wajda nel 2009 aveva vinto questo stesso
premio con Tatarak
(Sweetrush). L’anno scorso Tomasz
Wasilewski si è portato a casa l’Orso d’Argento per la sceneggiatura di
Zjednoczone stani miłości
(United states of love),
forse non troppo meritato. Due anni fa Małgorzata Szumowska vince
l’Orso d’Argento
per la miglior regia per la bellissima commedia nera Body/Ciało.
Ad
aprire la Berlinale del 2017 è
T2 Trainspotting
di Danny Boyle,
un’interessante operazione in cui i protagonisti sono gli stessi
personaggi del
primo film, ma con 20 anni in più… e anche gli attori. Interessante
anche
perché il film è basato su un romanzo dal titolo Porno che lo stesso
Irvine Welsh, autore del
primo Trainspotting,
aveva scritto poco dopo
il primo, e che ritraeva appunto la vita degli stessi personaggi dopo
vent’anni.
Dalla sua seconda opera a questa Danny Boyle ha fatto molta strada,
vincendo anche
l’oscar con The
Millionaire nel 2008. Lo
stesso ha fatto Ewan McGregor, che ha lavorato con i migliori registi,
come
Polanski, fino a diventare regista lui stesso con Pastorale Americana,
che per essere un’opera
prima non ha nulla per cui possa essere biasimata. Boyle ha affrontato
quindi
questo film in grande stile, girandolo in una meravigliosa Edimburgo
invece che
nella meno cara Glasgow, come invece aveva fatto per il primo Trainspotting.
L’Orso
d’Oro, lo vince
la regista ungherese Ildikó Enyedi con Testről
és
lélekről (On Body and Soul), una tenera storia d’amore tra
due persone
che lavorano in un macello: speriamo di vederlo presto in Italia.
Quello
d’Argento per la miglior regia va ad Aki Kaurismaki, a mio parere
sempre troppo
poco premiato. Il film segue la scia di Le Havre
(Miracolo a Le Havre), raccontando la vita difficile degli
immigrati e
di chi è rifiutato dalla società in cui vive. Si intitola Toivon
tuolla puolen (The Other Side of Hope).
Ospite
a Berlino è anche Bruce
Labruce, del quale vengono proiettate ben due nuove pellicole: Ulrike’s brain nella
sezione Forum Expanded e The
Misandrists. Il primo è l’assurda storia,
girata ad Amburgo, di una dottoressa che trafuga il cervello di Ulrike
Meinhof
per impiantarlo nel corpo di una fotomodella, e di un idealista di
estrema
destra che riporta in vita Michael Kühnen, capo, nell’89, del partito
Neo-Nazista tedesco. I due “zombi” si innamorano a prima vista. Nel
secondo
film un’armata femminile si prepara per la rivoluzione contro il
patriarcato,
studia come procreare senza necessità dell’altro sesso, finché un
giovane
ragazzo non chiede protezione alle rivoluzionarie. Bruce Labruce ha
vinto il
Teddy Award nel 2014 con il suo Pierrot Lunaire sempre qui a Berlino. Lo accompagna la sua attrice,
Susanne
Sachsse, che si esibisce nella sua nuova performance Confessions of an actress.
In
occasione della proiezione di Ulrike’s
brain approfittiamo per assistere alla
proiezione di Serce
Miłości, un ibrido
tra documentario, film di finzione e installazione incentrato sulle
vite dei
due artisti Zuzanna Bartoszek e Wojtek Bąkowski, con la regia di Łukasz
Ronduda
alla sua seconda direzione.
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Pokot
è un rituale polacco che segna la fine di una giornata di caccia in gruppo.
Durante questo rituale, gli animali uccisi vengono messi a terra in ordine di
importanza, e viene definito tra i partecipanti il “Re della Caccia”, ovvero
colui che ha ucciso più di animali di maggior pregio.
E’ proprio una foto di questo
rituale che fa scatenare gli avvenimenti del film. Janina Duszejko, la protagonista,
vi vede i propri cani uccisi. Lei odia la caccia e ama gli animali più dei
propri simili: abita in un posto sperduto in mezzo alle montagne al confine tra
la Polonia e la Repubblica Ceca. È un ex ingegnere che ha girato il mondo
costruendo ponti, ma che ora i ponti li ha tagliati quasi con tutti.
Dopo aver perso i cani, in realtà,
si trova ad avere degli amici nel paesino in cui vive: con il suo vicino
Matoga, insieme a cui scopre il primo di una serie di cadaveri, stringe un
legame di amicizia dopo anni di vicinato in cui probabilmente si erano parlati
poche volte. Una sorta di amore materno la lega, invece, alla ragazza che
gestisce il negozio del paese, infelice e maltrattata dal fidanzato, con un
figlio lontano che vorrebbe con lei. La signora Duszejko l’ha soprannominata
Dobra Nowina, ovvero Buona Notizia. Durante l’estate Duszejko trova anche
l’amore, grazie a un entomologo che si trova lì per studiare il comportamento
di alcuni insetti.
Janina, anzi, Duszejko, come vuole
farsi chiamare, si sente in dovere di rappresentare quelle che sono le
categorie più deboli: in un paese di spietati cacciatori, rozzi uomini di
montagna, cinici e maschilisti, difende le donne maltrattate e per loro prova
empatia. Piange per gli animali torturati e uccisi, e prende sotto la sua ala
coloro che sono più deboli, come ad esempio lo stagista che lavora nel commissariato
di polizia che soffre, in segreto per paura di essere licenziato, di epilessia.
Agnieszka Holland, regista di
questo bellissimo film, è una dei registi polacchi più famosi al di fuori del
suo paese. I suoi film trattano spesso argomenti impegnati: guerra, persecuzioni
religiose e politiche, mancanza di libertà e di diritti attribuiti alle
minoranze di ogni genere. Tuttavia, a mio parere, Agnieszka Holland è la
regista meno polacca tra i suoi connazionali. Inoltre, tutti questi temi
impegnati vengono spesso da lei affrontati in modo piuttosto superficiale: capita a volte nei film di questa regista che all'interno di una forma perfetta in qualche modo il contenuto passi un po' in secondo piano.
Il fatto, quindi, che abbia
deciso di trasporre un romanzo come Guida il tuo
carro sulle ossa dei morti di Olga Tokarczuk, ironico, divertente e dal
tono molto leggero nonostante la profondità dei significati, ha fatto sì che
questa sua ultima opera sia diventata un vero capolavoro. Inoltre è uscito
dalle sue mani un film molto polacco in cui emerge perfettamente l’atmosfera
particolarissima dei romanzi della Tokarczuk, che senza dubbio occupa un posto d’onore
tra gli scrittori più caratteristici del suo paese.
Il film, che la regista
inizialmente voleva intitolare Non è un paese
per vecchie signore, è molto
fedele al romanzo: quando Matoga e Duszejko entrano nella stanza di Wielka
Stopa, l’ambientazione, la stanza sono talmente perfette che un lettore non
potrebbe immaginare la scena se non così come la Holland l’ha girata. Duszejko
è forse un po’ più dolce e meno burbera di come è nel romanzo, ma anche questo
è un valore aggiunto che la regista ha dato al film, evitando di creare il
personaggio-cliché della zitella misantropa di mezza età.
Se i personaggi “cattivi” sono in
tutto e per tutto negativi, privi di umanità e di tridimensionalità, quelli
positivi hanno invece molti difetti, sono umani fino infondo, pieni di
sfaccettature e non per forza sempre “buoni”. Questo dà al film una strana
atmosfera facendo pensare non tanto ad una vicenda terrena quanto ad una
metafora o una parabola.
L’ironia imperversa, non mancano
scene o battute divertenti, come quando la voce fuori campo di Duszejko dice
che raccogliere i funghi è l’attività preferita dai polacchi perché è
un’occupazione individualista che non presuppone lavoro di squadra, non si è
costretti a parlare per dedicarvisi, ma allo stesso tempo è alquanto
competitiva. Fa
sorridere il modo di vivere minimalista dello stagista, che si impone di non
avere più di 80 oggetti in casa e non è quindi dotato di tavolo e sedie, ed è
toccante la scena in cui Matoga va a trovare Duszejko con i lamponi in mano, e quando
vede che lei è in compagnia dell’entomologo li stritola tra le dita.
Si passa poi a ridere quando si
ascolta la storia di Matoga, il cui vero nome è Świętopełk Świerszczyński, la
cui madre tedesca morirà senza aver mai imparato a dire il suo nome impronunciabile,
e ci si inquieta subito dopo, quando lo stesso Matoga racconta di come suo
padre si fosse sposato per odio nei confronti dei tedeschi invece che per
amore.
È suggestiva la scena sotto la
pioggia girata al crepuscolo nella foresta, quando Duszejko con i suoi scolari
partono alla ricerca dei cani scomparsi e sono divertenti i siparietti che
rappresentano la visione che Duszejko ha delle vite degli altri: in un caso
vede il triste passato di Dobra Nowina, in un altro quello di Matoga bambino.
Forse, l’unico elemento non reso
proprio perfettamente è l’alone di mistero intorno agli omicidi, che nel libro
porta il lettore a pensare che davvero siano frutto della vendetta degli
animali. Si tratta, tuttavia, di una pellicola di notevole valore davvero
piacevole, divertente e perfetta nella forma come sempre accade quando a
dirigere è Agnieszka Holland. Le musiche oscillano dal Polanski di Oliver Twist a quello di Ghost Writer.
A parte i bellissimi dolly sulle
montagne delle prime scene, la regia quasi scompare e il film scorre liscio, piacevolissimo
e senza cadute di stile che, a volte, fanno capolino in altre opere della
regista. La tematica ambientalista non è affrontata in modo troppo accentuato e
retorico, le riprese di cadaveri umani e non sono forti ed esplicite, forse per
evidenziare che la natura fa il suo corso, e comunque vince anche sul più
spietato degli uomini.
In qualità di film diretto da Agnieszka
Holland, Pokot non può essere privo di un
certo impegno sociologico, seppur espresso, in questo caso, in modo molto
leggero. In esso, infatti, è perfettamente rappresentata la mentalità di chi
vuole soggiogare tutto ciò che è più debole, che siano donne, anziani o
animali; la mentalità di chi si sente sicuro quando è in gruppo, e in gruppo dà
il peggio di sé.
Questo aspetto è stato certamente
amplificato dal momento storico in cui questa pellicola si è trovata ad uscire:
a otto anni dall’uscita di Guida il tuo carro
sulle ossa dei morti e quattro dalla nascita dell’idea della regista di
scegliere proprio quel romanzo, un film che parla di ecologia, maschilismo e prevaricazione
del potere nei confronti dei più deboli o delle minoranze diventa metafora
prima della Polonia moderna di Kaczynski, con le sue idee di destra e il suo
approccio verso l’aborto, e poi del resto del mondo, a partire dalla Brexit, per
arrivare all’America di Trump.
Ma la regista afferma di non aver
avuto alcuna intenzione di trattare temi politici: è quanto
accade alle creazioni artistiche, che all’improvviso si slegano dalle intenzioni dei propri autori e cominciano a vivere di vita propria.
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Il
film ritrae la relazione tra Zuzanna
Bartoszek e Wojtek Bąkowski nella cui vita si sovrappongono e
influenzano vita,
malattia, amore ed arte. Lei è una poetessa debuttante e lui un artista
visuale
e musicista già affermato. I due si amano ma tra loro nasce anche una
forte
competizione artistica. La loro vita insieme è anche una continua lotta
per la
propria autonomia creativa e per la propria affermazione personale.
L’emancipazione da Wojtek di Zuzanna, più giovane, e il di lei debutto
artistico mettono alla prova il loro amore, finché i due si trovano
costretti a
scegliere tra la propria vita artistica e la loro vita insieme. È
impossibile trovare
un equilibrio, le due personalità sono molto forti e ogni elemento del
mondo
reale, compresa la loro relazione, risulta un freno per la creatività e
per
l’arte.
I
personaggi non sono di
finzione, esistono realmente e lavorano attualmente in Polonia.
All’insegna
della compenetrazione tra finzione e realtà, tra arte e vita, hanno
ideato
alcune installazioni appositamente per questo film. Insieme al regista
e agli
attori, in sala all’Accademia delle Belle Arti di Hanseatenweg 10 a
Berlino,
sono presenti anche loro. Vedere insieme attori e personaggi è una
strana
sensazione: sembra di essere nell’immensa e perpetua opera teatrale di Synechdoche, New York,
film di di Charlie
Kaufman in cui i personaggi reali vengono replicati in tutti i momenti
della
loro vita da attori che li impersonano ventiquattro ore su
ventiquattro.
Zuzanna
Bartoszek si occupa di
poesia, disegno, performance, danza ed è nata nel ‘93 a Poznan. Ha
scritto
anche Niebieski dwór,
un raccolta di
racconti autobiografici non priva di un certo umorismo tragico. È
purtroppo
affetta da diverse malattie oncologiche: nel film afferma che le sue
cellule
invece di combattere le malattie combattono se stesse in una sorta di
“autovampirismo”.
Wojciech
Bąkowski è invece del
’79, grafico e performer nato anche lui a Poznan e laureato lì stesso
all’Accademia
delle Belle Arti. La sua caratteristica principale è un certo
minimalismo nelle
forme di espressione, presente sia nel disegno che nelle performance
stesse. E’
considerato uno dei più interessanti artisti polacchi della nuova
generazione
ed è spesso definito “artista multimediale”. La sua musica è
considerata
alternativa ed è spesso contaminata da poesia e audioperfomance. Spesso
usa
audiocassette e registratori come fossero strumenti durante le sue
esibizioni.
Gli
attori nel film sono
perfetti, soprattutto Justyna Wasilewska, che dopo l’apatia
Kaurismakiana del
suo personaggio in Kebab
i Horoskope, bel
film portato a Gdynia nel 2015 ma mai distribuito, dà qui prova di un
enorme
carisma e di una capacità attoriale fuori dal comune, nonostante la sua
esperienza che conta soltanto cinque film. A quanto dice in
un’intervista in
occasione della trasmissione Poranek
Dwójki
del 26 gennaio 2017, per il ruolo ha “spiato” e studiato la vera
Zuzanna, per
poi dimenticarla e lasciare libera la propria immaginazione per creare
questo
personaggio così stravagante.
Lo
sceneggiatore, Robert Bolesto,
ha scritto vari film tra cui uno piuttosto interessante uscito l’anno
scorso a
Gdynia:
si
intitola Córki Dancingu
ed è una sorta di
musical/horror/commedia grottesca piena di palle stroboscopiche e
canzoni anni
’80. Ha scritto anche la sceneggiatura di Ostatnia
Rodzina, film vincitore indiscusso, sempre a Gdynia, nel
2016.
Il
regista vive a Varsavia e si è
laureato in storia all’università di Łódź nel 2001. È stato curatore
dell’Archivio del Film Sperimentale in Polonia, ed è anche Professore
Associato
alla scuola di Psicologia Sociale, sempre a Varsavia. Ha curato diverse
mostre
al Castello Ujazdowski di Varsavia, il luogo più vivo e produttivo
nell’ambito
dell’arte contemporanea e sperimentale polacca che ospita anche il
Museo D’Arte
Moderna, dove ora lavora come direttore. Tra le sue mostre, Polish Video Art From the '70s
and '80s, che si
tiene nel 2006 alla Tate Modern di Londra. Vanta anche diverse
pubblicazioni.
Il
film è girato con maestria, caratterizzata
da una bellissima fotografia. Le inquadrature hanno colori, linee,
volumi e
luci studiate all’estremo al fine di creare un bellissimo risultato
estetico.
Il film è ambientato in una Varsavia modernissima a tratti luminosa e
luccicante e a tratti oscura e underground. La musica e gli effetti
sonori sono
notevoli, spesso cupi e pulsanti.
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