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BERLINALE

67° edizione della Berlinale 2017

Anche quest’anno, come spesso accade a Berlino, la Polonia viene valorizzata più che mai regalando un meritato Orso d’Argento a Pokot, di Agnieszka Holland. Il premio per l’esattezza si chiama Silver Bauer Prize, e viene assegnato ad autori le cui pellicole aprono nuove prospettive nell’arte cinematografica. Andrzej Wajda nel 2009 aveva vinto questo stesso premio con Tatarak (Sweetrush). L’anno scorso Tomasz Wasilewski si è portato a casa l’Orso d’Argento per la sceneggiatura di Zjednoczone stani miłości (United states of love), forse non troppo meritato. Due anni fa Małgorzata Szumowska vince l’Orso d’Argento per la miglior regia per la bellissima commedia nera Body/Ciało.

 

Ad aprire la Berlinale del 2017 è T2 Trainspotting di Danny Boyle, un’interessante operazione in cui i protagonisti sono gli stessi personaggi del primo film, ma con 20 anni in più… e anche gli attori. Interessante anche perché il film è basato su un romanzo dal titolo Porno che lo stesso Irvine Welsh, autore del primo Trainspotting, aveva scritto poco dopo il primo, e che ritraeva appunto la vita degli stessi personaggi dopo vent’anni. Dalla sua seconda opera a questa Danny Boyle ha fatto molta strada, vincendo anche l’oscar con The Millionaire nel 2008. Lo stesso ha fatto Ewan McGregor, che ha lavorato con i migliori registi, come Polanski, fino a diventare regista lui stesso con Pastorale Americana, che per essere un’opera prima non ha nulla per cui possa essere biasimata. Boyle ha affrontato quindi questo film in grande stile, girandolo in una meravigliosa Edimburgo invece che nella meno cara Glasgow, come invece aveva fatto per il primo Trainspotting.

 

L’Orso d’Oro, lo vince la regista ungherese Ildikó Enyedi con Testről és lélekről (On Body and Soul), una tenera storia d’amore tra due persone che lavorano in un macello: speriamo di vederlo presto in Italia. Quello d’Argento per la miglior regia va ad Aki Kaurismaki, a mio parere sempre troppo poco premiato. Il film segue la scia di Le Havre (Miracolo a Le Havre), raccontando la vita difficile degli immigrati e di chi è rifiutato dalla società in cui vive. Si intitola Toivon tuolla puolen (The Other Side of Hope).

 

Ospite a Berlino è anche Bruce Labruce, del quale vengono proiettate ben due nuove pellicole: Ulrike’s brain nella sezione Forum Expanded e The Misandrists. Il primo è l’assurda storia, girata ad Amburgo, di una dottoressa che trafuga il cervello di Ulrike Meinhof per impiantarlo nel corpo di una fotomodella, e di un idealista di estrema destra che riporta in vita Michael Kühnen, capo, nell’89, del partito Neo-Nazista tedesco. I due “zombi” si innamorano a prima vista. Nel secondo film un’armata femminile si prepara per la rivoluzione contro il patriarcato, studia come procreare senza necessità dell’altro sesso, finché un giovane ragazzo non chiede protezione alle rivoluzionarie. Bruce Labruce ha vinto il Teddy Award nel 2014 con il suo Pierrot Lunaire sempre qui a Berlino. Lo accompagna la sua attrice, Susanne Sachsse, che si esibisce nella sua nuova performance Confessions of an actress.

 

In occasione della proiezione di Ulrike’s brain approfittiamo per assistere alla proiezione di Serce Miłości, un ibrido tra documentario, film di finzione e installazione incentrato sulle vite dei due artisti Zuzanna Bartoszek e Wojtek Bąkowski, con la regia di Łukasz Ronduda alla sua seconda direzione.

Pokot


 

Regia: Agnieszka Holland

Pokot è un rituale polacco che segna la fine di una giornata di caccia in gruppo. Durante questo rituale, gli animali uccisi vengono messi a terra in ordine di importanza, e viene definito tra i partecipanti il “Re della Caccia”, ovvero colui che ha ucciso più di animali di maggior pregio.

 

E’ proprio una foto di questo rituale che fa scatenare gli avvenimenti del film. Janina Duszejko, la protagonista, vi vede i propri cani uccisi. Lei odia la caccia e ama gli animali più dei propri simili: abita in un posto sperduto in mezzo alle montagne al confine tra la Polonia e la Repubblica Ceca. È un ex ingegnere che ha girato il mondo costruendo ponti, ma che ora i ponti li ha tagliati quasi con tutti.

 

Dopo aver perso i cani, in realtà, si trova ad avere degli amici nel paesino in cui vive: con il suo vicino Matoga, insieme a cui scopre il primo di una serie di cadaveri, stringe un legame di amicizia dopo anni di vicinato in cui probabilmente si erano parlati poche volte. Una sorta di amore materno la lega, invece, alla ragazza che gestisce il negozio del paese, infelice e maltrattata dal fidanzato, con un figlio lontano che vorrebbe con lei. La signora Duszejko l’ha soprannominata Dobra Nowina, ovvero Buona Notizia. Durante l’estate Duszejko trova anche l’amore, grazie a un entomologo che si trova lì per studiare il comportamento di alcuni insetti.

 

Janina, anzi, Duszejko, come vuole farsi chiamare, si sente in dovere di rappresentare quelle che sono le categorie più deboli: in un paese di spietati cacciatori, rozzi uomini di montagna, cinici e maschilisti, difende le donne maltrattate e per loro prova empatia. Piange per gli animali torturati e uccisi, e prende sotto la sua ala coloro che sono più deboli, come ad esempio lo stagista che lavora nel commissariato di polizia che soffre, in segreto per paura di essere licenziato, di epilessia.

 

Agnieszka Holland, regista di questo bellissimo film, è una dei registi polacchi più famosi al di fuori del suo paese. I suoi film trattano spesso argomenti impegnati: guerra, persecuzioni religiose e politiche, mancanza di libertà e di diritti attribuiti alle minoranze di ogni genere. Tuttavia, a mio parere, Agnieszka Holland è la regista meno polacca tra i suoi connazionali. Inoltre, tutti questi temi impegnati vengono spesso da lei affrontati in modo piuttosto superficiale: capita a volte nei film di questa regista che all'interno di una forma perfetta in qualche modo il contenuto passi un po' in secondo piano.

 

Il fatto, quindi, che abbia deciso di trasporre un romanzo come Guida il tuo carro sulle ossa dei morti di Olga Tokarczuk, ironico, divertente e dal tono molto leggero nonostante la profondità dei significati, ha fatto sì che questa sua ultima opera sia diventata un vero capolavoro. Inoltre è uscito dalle sue mani un film molto polacco in cui emerge perfettamente l’atmosfera particolarissima dei romanzi della Tokarczuk, che senza dubbio occupa un posto d’onore tra gli scrittori più caratteristici del suo paese.

 

Il film, che la regista inizialmente voleva intitolare Non è un paese per vecchie signore[1], è molto fedele al romanzo: quando Matoga e Duszejko entrano nella stanza di Wielka Stopa, l’ambientazione, la stanza sono talmente perfette che un lettore non potrebbe immaginare la scena se non così come la Holland l’ha girata. Duszejko è forse un po’ più dolce e meno burbera di come è nel romanzo, ma anche questo è un valore aggiunto che la regista ha dato al film, evitando di creare il personaggio-cliché della zitella misantropa di mezza età.

 

Se i personaggi “cattivi” sono in tutto e per tutto negativi, privi di umanità e di tridimensionalità, quelli positivi hanno invece molti difetti, sono umani fino infondo, pieni di sfaccettature e non per forza sempre “buoni”. Questo dà al film una strana atmosfera facendo pensare non tanto ad una vicenda terrena quanto ad una metafora o una parabola.

 

L’ironia imperversa, non mancano scene o battute divertenti, come quando la voce fuori campo di Duszejko dice che raccogliere i funghi è l’attività preferita dai polacchi perché è un’occupazione individualista che non presuppone lavoro di squadra, non si è costretti a parlare per dedicarvisi, ma allo stesso tempo è alquanto competitiva[2]. Fa sorridere il modo di vivere minimalista dello stagista, che si impone di non avere più di 80 oggetti in casa e non è quindi dotato di tavolo e sedie, ed è toccante la scena in cui Matoga va a trovare Duszejko con i lamponi in mano, e quando vede che lei è in compagnia dell’entomologo li stritola tra le dita.

 

Si passa poi a ridere quando si ascolta la storia di Matoga, il cui vero nome è Świętopełk Świerszczyński, la cui madre tedesca morirà senza aver mai imparato a dire il suo nome impronunciabile, e ci si inquieta subito dopo, quando lo stesso Matoga racconta di come suo padre si fosse sposato per odio nei confronti dei tedeschi invece che per amore.

 

È suggestiva la scena sotto la pioggia girata al crepuscolo nella foresta, quando Duszejko con i suoi scolari partono alla ricerca dei cani scomparsi e sono divertenti i siparietti che rappresentano la visione che Duszejko ha delle vite degli altri: in un caso vede il triste passato di Dobra Nowina, in un altro quello di Matoga bambino.

 

Forse, l’unico elemento non reso proprio perfettamente è l’alone di mistero intorno agli omicidi, che nel libro porta il lettore a pensare che davvero siano frutto della vendetta degli animali. Si tratta, tuttavia, di una pellicola di notevole valore davvero piacevole, divertente e perfetta nella forma come sempre accade quando a dirigere è Agnieszka Holland. Le musiche oscillano dal Polanski di Oliver Twist a quello di Ghost Writer.

 

A parte i bellissimi dolly sulle montagne delle prime scene, la regia quasi scompare e il film scorre liscio, piacevolissimo e senza cadute di stile che, a volte, fanno capolino in altre opere della regista. La tematica ambientalista non è affrontata in modo troppo accentuato e retorico, le riprese di cadaveri umani e non sono forti ed esplicite, forse per evidenziare che la natura fa il suo corso, e comunque vince anche sul più spietato degli uomini.

 

In qualità di film diretto da Agnieszka Holland, Pokot non può essere privo di un certo impegno sociologico, seppur espresso, in questo caso, in modo molto leggero. In esso, infatti, è perfettamente rappresentata la mentalità di chi vuole soggiogare tutto ciò che è più debole, che siano donne, anziani o animali; la mentalità di chi si sente sicuro quando è in gruppo, e in gruppo dà il peggio di sé.

 

Questo aspetto è stato certamente amplificato dal momento storico in cui questa pellicola si è trovata ad uscire: a otto anni dall’uscita di Guida il tuo carro sulle ossa dei morti e quattro dalla nascita dell’idea della regista di scegliere proprio quel romanzo, un film che parla di ecologia, maschilismo e prevaricazione del potere nei confronti dei più deboli o delle minoranze diventa metafora prima della Polonia moderna di Kaczynski, con le sue idee di destra e il suo approccio verso l’aborto, e poi del resto del mondo, a partire dalla Brexit, per arrivare all’America di Trump.

 

Ma la regista afferma di non aver avuto alcuna intenzione di trattare temi politici[3]: è quanto accade alle creazioni artistiche, che all’improvviso si slegano dalle intenzioni dei propri autori e cominciano a vivere di vita propria.

 



[1] Intervista tenutasi il 7 febbraio a Varsavia in occasione dell’annuncio delle nomination per i premi Aquila 2017.

[2] Dai dialoghi del film.

[3] Dalla conferenza stampa con Agnieszka Holland tenutasi in occasione della presentazione alla Berlinale 2017 del film Pokot.

 

Serce Miłości


 

Regia: Łukasz Ronduda

 

Il film ritrae la relazione tra Zuzanna Bartoszek e Wojtek Bąkowski nella cui vita si sovrappongono e influenzano vita, malattia, amore ed arte. Lei è una poetessa debuttante e lui un artista visuale e musicista già affermato. I due si amano ma tra loro nasce anche una forte competizione artistica. La loro vita insieme è anche una continua lotta per la propria autonomia creativa e per la propria affermazione personale.

 

L’emancipazione da Wojtek di Zuzanna, più giovane, e il di lei debutto artistico mettono alla prova il loro amore, finché i due si trovano costretti a scegliere tra la propria vita artistica e la loro vita insieme. È impossibile trovare un equilibrio, le due personalità sono molto forti e ogni elemento del mondo reale, compresa la loro relazione, risulta un freno per la creatività e per l’arte.

 

I personaggi non sono di finzione, esistono realmente e lavorano attualmente in Polonia. All’insegna della compenetrazione tra finzione e realtà, tra arte e vita, hanno ideato alcune installazioni appositamente per questo film. Insieme al regista e agli attori, in sala all’Accademia delle Belle Arti di Hanseatenweg 10 a Berlino, sono presenti anche loro. Vedere insieme attori e personaggi è una strana sensazione: sembra di essere nell’immensa e perpetua opera teatrale di Synechdoche, New York, film di di Charlie Kaufman in cui i personaggi reali vengono replicati in tutti i momenti della loro vita da attori che li impersonano ventiquattro ore su ventiquattro.

 

Zuzanna Bartoszek si occupa di poesia, disegno, performance, danza ed è nata nel ‘93 a Poznan. Ha scritto anche Niebieski dwór, un raccolta di racconti autobiografici non priva di un certo umorismo tragico. È purtroppo affetta da diverse malattie oncologiche: nel film afferma che le sue cellule invece di combattere le malattie combattono se stesse in una sorta di “autovampirismo”.

 

Wojciech Bąkowski è invece del ’79, grafico e performer nato anche lui a Poznan e laureato lì stesso all’Accademia delle Belle Arti. La sua caratteristica principale è un certo minimalismo nelle forme di espressione, presente sia nel disegno che nelle performance stesse. E’ considerato uno dei più interessanti artisti polacchi della nuova generazione ed è spesso definito “artista multimediale”. La sua musica è considerata alternativa ed è spesso contaminata da poesia e audioperfomance. Spesso usa audiocassette e registratori come fossero strumenti durante le sue esibizioni.

 

Gli attori nel film sono perfetti, soprattutto Justyna Wasilewska, che dopo l’apatia Kaurismakiana del suo personaggio in Kebab i Horoskope, bel film portato a Gdynia nel 2015 ma mai distribuito, dà qui prova di un enorme carisma e di una capacità attoriale fuori dal comune, nonostante la sua esperienza che conta soltanto cinque film. A quanto dice in un’intervista in occasione della trasmissione Poranek Dwójki del 26 gennaio 2017, per il ruolo ha “spiato” e studiato la vera Zuzanna, per poi dimenticarla e lasciare libera la propria immaginazione per creare questo personaggio così stravagante.

 

Lo sceneggiatore, Robert Bolesto, ha scritto vari film tra cui uno piuttosto interessante uscito l’anno scorso a Gdynia[1]: si intitola Córki Dancingu ed è una sorta di musical/horror/commedia grottesca piena di palle stroboscopiche e canzoni anni ’80. Ha scritto anche la sceneggiatura di Ostatnia Rodzina, film vincitore indiscusso, sempre a Gdynia, nel 2016.

 

Il regista vive a Varsavia e si è laureato in storia all’università di Łódź nel 2001. È stato curatore dell’Archivio del Film Sperimentale in Polonia, ed è anche Professore Associato alla scuola di Psicologia Sociale, sempre a Varsavia. Ha curato diverse mostre al Castello Ujazdowski di Varsavia, il luogo più vivo e produttivo nell’ambito dell’arte contemporanea e sperimentale polacca che ospita anche il Museo D’Arte Moderna, dove ora lavora come direttore. Tra le sue mostre, Polish Video Art From the '70s and '80s, che si tiene nel 2006 alla Tate Modern di Londra. Vanta anche diverse pubblicazioni.

 

Il film è girato con maestria, caratterizzata da una bellissima fotografia. Le inquadrature hanno colori, linee, volumi e luci studiate all’estremo al fine di creare un bellissimo risultato estetico. Il film è ambientato in una Varsavia modernissima a tratti luminosa e luccicante e a tratti oscura e underground. La musica e gli effetti sonori sono notevoli, spesso cupi e pulsanti.



[1] Festival più importante per il cinema polacco in Polonia.