Evento 5 del 15 novembre 2019
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La lettura de Il Maestro e Margherita
Il Maestro e Margherita, (Мастер и Маргарита), scritto da Michail Bulgakov tra il 1928 e il 1940.
Traduzione di Vera Dridso
I brani sono stati letti da Enrico e Mauro in italiano e da Lilia in russo.
PRIMO BRANO
–
Te lo
ripeto per l’ultima volta, smettila di
fingerti pazzo, furfante, – proferí Pilato con voce blanda e monotona,
– poche
delle tue parole sono state trascritte, ma bastano a farti impiccare.
–
No,
no, egemone, – disse l’arrestato, tutto teso
nel desiderio di essere convincente, – un tale mi segue dappertutto con
la sua
pergamena di capra e trascrive di continuo le mie parole. Ma una volta
ho dato
un’occhiata a quella pergamena e sono rimasto inorridito. Di tutto
quello che
c’era scritto, non avevo detto una parola. L’ho supplicato: «Brucia la
tua
pergamena, ti prego!» Ma me l’ha strappata di mano ed è fuggito.
–
Chi?
– domandò Pilato con un senso di ripugnanza,
e si toccò una tempia con la mano.
–
Levi
Matteo, – spiegò di buon grado l’arrestato,
– faceva il pubblicano; l’ho incontrato per la prima volta sulla strada
di
Betania, all’angolo del giardino dei fichi, e ci siamo messi a parlare.
Dapprima mi trattava con ostilità, ed era persino offensivo, cioè
credeva di
offendermi chiamandomi cane -. L’arrestato ridacchiò. – Personalmente
non vedo
nulla di male in quella bestia perché debba offendermi il suo nome…
Il segretario smise di scrivere, e
lanciò di sottecchi uno
sguardo sorpreso, ma non all’arrestato, bensí al procuratore.
–
…
Però dopo avermi prestato ascolto si addolcí,
– continuò Jeshua, – infine gettò il denaro sulla via e disse che mi
avrebbe
seguito nei miei viaggi…
Pilato sogghignò con una sola
guancia, mettendo in mostra
denti gialli, e disse, voltando tutto il torso verso il segretario:
–
Oh,
città di Jerushalajim! Che cosa non vi puoi
udire! Un pubblicano, sentite, che getta il denaro nella via!
Non sapendo come rispondere, il
segretario ritenne opportuno
imitare il sorriso del procuratore.
–
Disse
che da quel momento il denaro gli era divenuto
odioso, – cosí Jeshua spiegò lo strano atteggiamento di Levi Matteo, e
aggiunse: – E da allora mi accompagna.
Senza smettere di sghignazzare, il
procuratore guardò
l’arrestato, poi il sole che saliva inesorabile al di sopra delle
statue
equestri dell’ippodromo in basso a destra, in lontananza, e in un
parossismo di
tormento assillante pensò che la cosa piú semplice sarebbe stata
cacciare dalla
loggia quello strano furfante pronunciando un’unica parola
«impiccatelo».
Cacciar via anche la scorta, rientrare dai porticato nel palazzo, dare
ordine
di oscurare la stanza buttarsi sul letto, chiedere acqua fresca,
chiamare con
voce lamentosa il cane Bangá, lagnarsi con lui dell’emicrania E il
pensiero del
veleno balenò seducente nella testa tormentata del procuratore.
Guardava l’arrestato con occhi
torbidi, e per un po’ tacque,
cercando penosamente di ricordare perché sotto lo spietato solleone
mattutino
di Jerushalajim stava davanti a lui un arrestato dal volto tumefatto
dalle
percosse, e quali altre domande inutili dovesse ancora rivolgergli.
–
Levi
Matteo? – chiese l’ammalato con voce rauca,
e chiuse gli occhi.
–
Sí, –
echeggiò la voce alta che lo torturava.
–
Ma
che cosa dicevi a proposito del tempio alla
folla del mercato?
La voce dell’accusato sembrava
trafiggere la tempia di
Pilato, tormentandolo in modo indicibile; questa voce diceva:
–
Io,
egemone, dicevo che il tempio della fede
antica deve crollare e al suo posto deve sorgere il nuovo tempio della
verità.
Dissi cosí perché fosse piú comprensibile.
–
Ma
perché, vagabondo, turbavi la gente del
mercato parlando di una verità di cui non hai idea? Che cos’è la verità?
Appena ebbe detto questo, il
procuratore pensò: «Oh numi!
Gli sto chiedendo delle cose che non c’entrano col processo… non riesco
piú a
dominare la mia mente…» E di nuovo gli balenò davanti la visione d’una
coppa di
liquido scuro. «Del veleno, voglio del veleno…» Di nuovo udí la voce:
–
La
verità anzitutto è che ti fa male la testa,
ti fa talmente male che pavidamente pensi alla morte. Non solo non sei
in grado
di parlare con me, ma ti è perfino difficile guardarmi. E adesso sono
involontariamente il tuo torturatore il che mi amareggia. Non riesci
neppure a
pensare e sogni solo che venga il tuo cane, l’unico essere,
evidentemente, al
quale sei affezionato. Ma il tuo tormento cesserà subito, la testa non
ti farà
piú male.
Il segretario spalancò gli occhi
sull’arrestato e non
terminò la parola che stava scrivendo.
Pilato alzò gli occhi di martire sul
prigioniero e vide che
il sole era già abbastanza alto sopra l’ippodromo, che un raggio era
penetrato
nel porticato e strisciava verso i sandali logori di Jeshua e che
questi se ne
scostava.
Il procuratore si alzò allora dalla
scranna, strinse la
testa fra le mani, e sul suo giallognolo volto sbarbato si dipinse il
terrore.
Ma lo represse subito con uno sforzo di volontà e si abbandonò di nuovo
nella
scranna.
Nel frattempo l’arrestato continuava
il suo discorso, ma il segretario
non scriveva piú nulla: cercava solo, allungando il collo come un’oca,
di non
perdere una parola.
–
Ecco,
tutto è finito, – diceva l’arrestato
guardando con benevolenza Pilato, – ne sono molto lieto. Ti
consiglierei,
egemone, di lasciare temporaneamente il palazzo e di farti una
passeggiata a
piedi nei dintorni, anche solo nei giardini sul monte Elion. Il
temporale avrà
inizio… – il prigioniero si voltò, socchiuse gli occhi guardando il
sole… piú
tardi, verso sera. La passeggiata ti farebbe molto bene, e io ti
accompagnerei
volentieri. Mi sono venute in mente alcune idee che, credo, ti
potrebbero
sembrare interessanti e te ne farei volentieri partecipe, tanto piú che
dai
l’impressione di essere assai intelligente -. Il segretario diventò
pallido come
un cadavere e lasciò cadere a terra il rotolo di pergamena. – Il guaio
è, –
nessuno interrompeva l’uomo legato, – che sei troppo rinchiuso in te
stesso, e
non hai piú alcuna fiducia negli uomini. Non si può, ammettilo, riporre
tutto
il proprio affetto in un cane. La tua vita è vuota, egemone, – e qui
l’uomo si
permise di sorridere.
Il segretario pensava solamente a una
cosa: credere o no
alle proprie orecchie. Bisognava crederci. Allora cercò di immaginare
quale
forma capricciosa avrebbe assunto la furia dell’irascibile procuratore
dopo
quell’inaudita insolenza del prigioniero. Ma non vi riusciva, benché
conoscesse
bene il procuratore.
Si udí allora la voce rotta e rauca
del procuratore che
disse in latino:
–
Slegategli
le mani.
Uno dei legionari della scorta batté
la lancia in terra, la
passò a un altro, si avvicinò e tolse le corde all’arrestato. Il
segretario
raccattò il rotolo e decise di non scrivere nulla per il momento e di
non
stupirsi di nulla.
–
Confessa,
– disse piano in greco Pilato, – sei
un grande medico?
–
No,
procuratore, non sono un medico, – rispose
il prigioniero, sfregandosi con voluttà la mano paonazza sformata e
tumefatta.
Pilato trafiggeva il prigioniero con
gli occhi, guardandolo
fisso di sotto le sopracciglia aggrottate, e in quegli occhi non c’era
piú
nulla di torbido: vi erano apparse le scintille ben note a tutti.
–
Non
te l’ho chiesto, – disse Pilato, – forse sai
anche il latino?
–
Sí,
lo so, – rispose l’arrestato.
Il colore affiorò sulle guance
giallastre di Pilato, che
chiese in latino:
–
Come
hai fatto a sapere che volevo chiamare il
mio cane?
–
È
facilissimo, – rispose il prigioniero nella
stessa lingua. – La tua mano ha fatto un gesto nell’aria, – e ripeté
egli
stesso quel gesto, – come se tu volessi fare una carezza, e le tue
labbra…
–
Già,
– disse Pilato.
Tacquero. Poi il procuratore chiese
in greco:
–
Allora
sei un medico?
–
No,
no, – rispose con vivacità il prigioniero, –
credimi, non sono un medico.
–
E va
bene, se vuoi che resti un segreto, fai
pure. Questo non riguarda direttamente la tua causa. Quindi tu affermi
che non
incitavi a distruggere… o incendiare, o annientare in qualche altro
modo il
tempio?
–
Io,
egemone, non ho incitato nessuno a tali
azioni, lo ripeto. Sembro forse un demente?
–
No,
non lo sembri proprio, – rispose con voce
sommessa il procuratore, ed ebbe un sorriso terribile. – Allora giurami
che non
è vero.
–
Su
che cosa vuoi che io giuri? – chiese pieno di
animazione l’uomo slegato.
–
Be’,
anche sulla tua vita, – rispose Pilato, – è
proprio il momento giusto per giurare sulla tua vita, perché è appesa a
un
filo, sappilo.
–
Credi
di essere stato tu ad appenderla, egemone?
– chiese il prigioniero. – Se fosse cosí, ti sbaglieresti di grosso.
–
Pilato
trasalí e rispose tra i denti:
–
Posso
tagliare quel filo.
–
Anche
qui ti sbagli, – ribatté il prigioniero
con un luminoso sorriso e riparandosi con la mano dal sole. –
Ammetterai che il
filo può essere spezzato solo da chi lo ha teso.
–
Già,
già, – sorrise Pilato, – adesso non dubito
piú che gli oziosi perdigiorno di Jerushalajim ti seguissero a passo a
passo.
Non so chi ti abbia messo la lingua in bocca, ma te l’ha messa bene. A
proposito, dimmi, è vero che sei giunto a Jerushalajim dalla Porta di
Susa
cavalcando un asino e accompagnato da una folla che ti acclamava come
un
profeta? – Dicendo questo, il procuratore fece un cenno verso il rotolo
di
pergamena.
–
L’arrestato
guardò perplesso il procuratore.
–
Non
ho nemmeno l’asino, egemone, – disse. – È
vero che sono giunto a Jerushalajim dalla Porta di Susa, ma a piedi,
accompagnato dal solo Levi Matteo, e nessuno mi acclamava, perché
allora a
Jerushalajim nessuno mi conosceva.
–
Conosci
queste persone, – continuò Pilato senza
distogliere gli occhi dal prigioniero: – un certo Disma, un certo
Hesta, e
infine Bar-Raban?
–
Non
conosco questa buona gente, – rispose il
prigioniero.
–
Davvero?
–
Davvero.
–
E
adesso dimmi perché usi sempre le parole
«buona gente». Chiami tutti cosí?
–
Sí,
tutti, – rispose il prigioniero. – Non
esistono uomini cattivi.
–
È la
prima volta che lo sento dire, – sogghignò
Pilato.
–
Magari
conosco poco la vita!… Puoi fare a meno
di scrivere, – disse al segretario, benché questi non scrivesse piú da
un
pezzo, e continuò, rivolto al prigioniero: – L’hai letto in qualche
libro
greco?
–
No,
ci sono arrivato da solo.
–
E lo
predichi?
–
Sí.
–
Ma,
per esempio, il centurione Marco, l’hanno
soprannominato l’Ammazzatopi, è buono anche lui?
–
Sí, –
rispose il prigioniero, – però è un
infelice. Da quando certa buona gente l’ha mutilato, è diventato
crudele e
duro. Vorrei sapere chi l’ha mutilato.
–
Te lo
dirò volentieri, – ribatté Pilato, –
perché ero presente. La buona gente gli si buttava addosso come i cani
fanno
con gli orsi. I germani lo avevano afferrato per il collo, le braccia,
le
gambe. Il manipolo di fanteria era stato preso in una sacca, e se dal
fianco
non si fosse incuneata una torma di cavalieri (la comandavo io), tu,
filosofo,
non avresti avuto l’occasione di chiacchierare con l’Ammazzatopi. Fu
nella
battaglia di Idistaviso, nella Valle delle Vergini.
–
Se si
potesse parlargli, – disse con voce
sognante il prigioniero, – sono certo che cambierebbe subito.
–
Ritengo,
– rispose Pilato, – che farebbe poco
piacere al legato della legione, se ti venisse in mente di parlare con
qualcuno
dei suoi ufficiali o soldati. Del resto, questo non succederà, per il
bene
comune, e il primo che provvederà a questo sarò io.
In quel momento sotto il porticato
entrò di slancio una
rondine, descrisse un cerchio sotto la volta dorata, si abbassò, sfiorò
con
l’ala appuntita il volto di una statua di rame dentro una nicchia e
scomparve
dietro il capitello di una colonna. Forse le era venuta l’idea di farvi
il suo
nido.
Durante quelle evoluzioni, nella
testa del procuratore,
ridiventata limpida e leggera, era nata una formula: l’egemone ha preso
in
esame la pratica del filosofo vagabondo Jeshua, soprannominato Hanozri,
e non
vi ha riscontrato gli estremi del reato. In particolare, non ha trovato
il
menomo legame tra l’attività di Jeshua e i disordini avvenuti da poco a
Jerushalajim. Il filosofo vagabondo è un malato di mente, per cui il
procuratore non conferma la condanna a morte di Hanozri emanata dal
Piccolo Sinedrio.
Ma considerato che i folli discorsi utopistici di Hanozri possono
causare
disordini a Jerushalajim, il procuratore esilia Jeshua da Jerushalajim
e lo fa
confinare a Cesarea, sul Mediterraneo, cioè proprio nel luogo di
residenza del
procuratore.
Rimaneva da dettare questo al
segretario.
Le ali della rondine frullarono sopra
la testa dell’egemone,
l’uccello si slanciò verso la vasca della fontana e volò via. Il
procuratore
alzò lo sguardo verso il prigioniero e vide che vicino a lui una
colonna di pulviscolo
riluceva al sole.
–
È
tutto? – chiese Pilato al segretario.
–
No,
purtroppo, – rispose inaspettatamente
questi, e porse a Pilato un altro pezzo di pergamena.
SECONDO BRANO
Non avendo potuto venire a capo di
niente nella Commissione,
lo scrupoloso Vasilij Stepanovic decise di recarsi alla filiale, che si
trovava
nel vicolo Vagan’kovskij, e, per calmarsi un po’, fece la strada a
piedi.
La filiale urbana degli spettacoli si
trovava in una
palazzina scrostata per il tempo in fondo a un cortile ed era celebre
per le
colonne di porfido del vestibolo. Quel giorno però i visitatori non
erano
impressionati dalle colonne, bensí da quello che avveniva attorno ad
esse.
Alcuni visitatori stavano come
impietriti a guardare una
signorina piangente seduta a un tavolino coperto di pubblicazioni
teatrali,
della cui vendita essa era l’incaricata. In quel momento, però, essa
non
offriva alcuna pubblicazione, e alle domande compassionevoli rispondeva
con un
gesto della mano, mentre dall’alto, dal basso, dai lati, insomma da
tutti i
reparti della filiale si riversavano gli squilli ininterrotti di almeno
venti
telefoni.
Dopo aver versato qualche lacrima, la
signorina sussultò,
urlò istericamente: – Ricomincia! – ed attaccò a cantare con una
tremula voce
da soprano:
Celebre mare,
sacro Bajkal…
Il fattorino, apparso sulla scala,
minacciò qualcuno col
pugno, e accompagnò la signorina, con una voce baritonale fioca e
inespressiva:
La bella nave è
un barile di pesci…
Alla voce del fattorino si unirono
voci lontane, il coro
prese a crescere e, alla fine, la canzone risuonò in tutti gli angoli
della filiale.
Nella vicina stanza n. 6, dove si trovava il reparto contabile di
controllo, si
distingueva una voce potente ma un po’ velata di un basso profondo. Il
coro era
accompagnato dal crescente strepitio degli apparecchi telefonici.
Ehi, vento del
nord, muovi l’onda!…
urlava il fattorino sulla scala.
Le lacrime scorrevano sul viso della
ragazza; essa cercava
di stringere i denti, ma la sua bocca si apriva da sola, ed essa
cantava di
un’ottava piú su del fattorino:
Il giovanotto
non deve andar lontano!…
I muti visitatori della filiale erano
stupiti dal fatto che
i coristi, sparsi in vari posti, cantassero all’unisono come se
l’intero coro
non staccasse gli occhi da un invisibile direttore.
Coloro che passavano per il vicolo
Vagan’kovskij si
fermavano presso l’inferriata dell’ingresso, meravigliandosi
dell’allegria che
regnava nella filiale.
Non appena la prima strofa giunse
alla fine, il canto cessò
di colpo, di nuovo come ubbidendo alla bacchetta di un direttore. Il
fattorino
imprecò a bassa voce e sparí.
Si aprí la porta principale e apparve
un signore con un
soprabito dal quale spuntavano le falde di un camice bianco e con lui
un
poliziotto.
–
Faccia
qualcosa, dottore, la supplico! – gridò
istericamente la ragazza.
Corse fuori sulla scala il segretario
della filiale, e,
ardendo visibilmente di vergogna e d’imbarazzo, disse in un balbettio:
–
Vede,
dottore, abbiamo qui un caso di ipnosi
collettiva, è quindi necessario… – Non terminò la frase, cominciò a
impappinarsi e attaccò con voce tenorile:
Silka e Nercinsk…
–
Cretino!
– fece in tempo a gridare la ragazza,
ma non spiegò con chi ce l’avesse, ed emise invece un trillo forzato,
cantando
anche lei di Silka e Nercinsk.
–
Si
padroneggi! La smetta di cantare! – disse il
dottore al segretario.
Tutto attestava che questi avrebbe
dato qualsiasi somma pur
di smettere di cantare, ma smettere non poteva e, insieme col coro,
portò a
conoscenza di coloro che passavano per la strada che «nella boscaglia
non lo
toccò la belva vorace, e le pallottole dei tiratori non lo raggiunsero».
Non appena la strofa finí, la ragazza
ricevette per prima
una dose di valeriana dal medico, che corse poi dagli altri impiegati
dietro al
segretario, per dar la medicina anche a loro.
Gli
"Otto
punti":
La tradizione dei
bigliettini continua! I partecipanti
possono scrivere su bigliettini di carta in modo anonimo le proprie
impressioni a caldo sui
film visti. I commenti vengono raccolti, messi in una scatola letti
durante la cena. Il gioco prevede anche che si indovini
l'autore di ogni bigliettino. Il testo dei bigliettini è riportato qui
sotto.
Fuga dal cinema "Libertà"
1) Il film mi è piaciuto: ho trovato interessante l’interazione tra le persone del mondo reale in sala e gli attori del set nella pellicola, con questa finta rottura della quarta parete. Devo rivederlo perché purtroppo mi sono persa dei pezzi.
2) Saggio sulla libertà, quella vera, quella che sta dietro lo schermo. Per quanto possa sembrare paradossale gli attori imbrigliati nel loro copione sono molto più liberi dei liberi spettatori del cinema “Libertà”.
3) La resa dei conti con la censura del regime va in scena con fantasia, ritmo e probabilmente grande soddisfazione di tutti, anche noi spettatori.
4) Un film sulla somatizzazione del senso di colpa. Siccome non c’è posto per un censore, né nel mondo reale, né nel mondo della finzione, allora è un requiem. Un requiem per un censore, ma anche un requiem per un’epoca che si chiude. Come dice il censore: se non ci fosse la censura, saremmo noi stessi a doverci censurare, e come faremmo? Bello e credibile il disagio fisico di Gajos e scena madre: l’assistente ispirato che canta il requiem.
5) Oggi mi sono reso conto, più che mai, di come gli eventi estemporanei della vita quotidiana, ad esempio un foglio di giornale che svolazza, i tetti di Varsavia, una luna piena che si affaccia alla finestra, interagiscano attivamente con le vicende del protagonista diventando interdipendenti l’una con l’altra. Non viaggiano quindi parallele ma l’una rimanda all’altra di continuo. Ma quanto sudano a Varsavia con il freddo che fa?
6) Ho seguito il film con difficoltà. Non mi ha convinto. Il gusto della citazione, da Bulgakov a Woody Allen per arrivare poi fino a Dostoevskij, mi è sembrato addirittura compulsivo col risultato di rendere il film sovraccarico e affastellato. Se il tema (nobilissimo) era la libertà dell’arte, forse era meglio trovare una strada meno tortuosa per trattarlo. Si salva la recitazione, certo. Ma non basta, secondo me, a valorizzare il film.
7) Non mi è piaciuto perché mette in cattiva luce i russi.
8) Per essere un film polacco, e quindi proveniente da un paese che noi tendiamo ad invadere, non è male. La validità del film è ovviamente dovuta al fatto che è basato su un libro russo.
9) Bellissimo film, surreale, ironico e profondo sulla censura e libertà di pensiero. Un film Polacco, un film nel film sui film come concludere al meglio gli incontri del Cinema Zuta?
10) Geniale e divertente, una versione polacca del “Maestro e Margherita” che gioca ad alzare la posta dello sfondamento della 4° e 5° parete.
Partecipanti:
Francesco, Marta, Lilia, Mauro, Enrico, Daniele, Daniela, Nevia, Paolo, Alice.